Di Andrea Marcigliano
Nello scenario geopolitico mondiale, il Caucaso rappresenta l’autentico “giardino dei sentieri che si biforcano” di borghesiana ascendenza. E’ terra di ambiguità, dove tutte le realtà presentano due (o più) facce, dove le contraddizioni e gli interessi contrastanti sembrano essere condannati a convivere in un groviglio impossibile da sbrogliare. E’ la scena per eccellenza del Grande Gioco, su cui si affacciano tutte le potenze, grandi o piccole, i cui interessi convergono in quello scacchiere cruciale. E questa “ambiguità” si traduce, inevitabilmente, in politiche e strategie complesse, sovente contraddittorie. L’offensiva del terrorismo islamico-fondamentalista in Cecenia e nelle repubbliche limitrofe del Caucaso russo sembra destinata a provocare un sostanziale riavvicinamento tra Mosca e Washington. In effetti, Vladimir Putin che aveva osteggiato l’”intervento preventivo” degli stati Uniti in Iraq, appare oggi alquanto più disponibile verso gli americani, e portato ad appoggiare i tentativi di George W. Bush di “internazionalizzare” la questione irakena, attraverso una Conferenza che sancisca il principio della “guerra globale al terrorismo”. E’ un’idea che a Putin non può non piacere, avendo sempre egli cercato di presentare il conflitto armato in Cecenia non come una guerra tra potenza imperialista, la Russia, e irredentismo locale, bensì come un aspetto del conflitto generale contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Interpretazione che il Cremlino ha stentato, però, sino ad oggi ad imporre all’opinione pubblica mondiale, e soprattutto alle principali Cancellerie d’Occidente, sospettose di fronte a quella che appare ai più come una ripresa della strategia imperiale di Mosca. Ovvero della strategia di controllo dell’intero Caucaso che era stata degli Zar prima e dei Soviet poi. Per Putin si presenta, dunque, oggi, un’occasione storica. I tragici fatti di Beslan hanno , inevitabilmente, presentato agli occhi del mondo l’orrore di un’offensiva terroristica che è stata, automaticamente, paragonata all’11 settembre di New York. La Russia non è apparsa più come la potenza imperialistica che opprime la libertà dei ceceni, ma come un paese “occidentale” oggetto dell’attacco indiscriminato del nuovo “nemico globale”. La rapidità con cui Bush – e con lui il Premier israeliano Sharon– ha manifestato solidarietà a Putin, offrendogli su un piatto d’argento la proposta di un’alleanza “forte” contro il terrorismo islamista, è il segno tangibile di un quadro internazionale in rapido mutamento. Mosca sembra avere oggi un crescente interesse ad allentare i rapporti con Parigi e Berlino, ad incrinare se non proprio infrangere quello che era stato “l’asse del no” all’intervento militare in Iraq; e a passare, parallelamente, ad un rapporto privilegiato con Washington, nuovo alleato in una strategia globale, nella quale, finalmente, anche la questione cecena potrebbe venire inserita a pieno titolo.
Il Caucaso, dunque, sembra destinato ad unire, o per lo meno a far convergere momentaneamente, le politiche del Cremlino e della Casa Bianca. E tuttavia sempre il Caucaso rappresenta – come già si è accennato in precedenza – la potenziale area di conflitto tra Russia ed USA. Perché duplice è l’interesse di Mosca: da un lato internazionalizzare sì la questione cecena come un aspetto dell’offensiva terroristica mondiale; ma dall’altro ribadire con decisione il concetto che il Caucaso è, e resta, il suo “giardino di casa”. Lo “spazio vitale” al cui controllo Putin non può e non vuole rinunciare in alcun modo. Tant’è che, parallelamente all’offensiva diplomatica conseguente ai “fatti” di Beslan, Mosca ha enunciato con chiarezza una sua propria versione della cosiddetta “guerra preventiva”. E, come hanno sottolineato alcuni commentatori, ha riciclato la Dottrina Monroe in “salsa caucasica”. Lo ha fatto per bocca del generale Jury Baluyevsky, nuovo capo di Stato Maggiore russo che ha dichiarato esplicitamente la volontà di “compiere tutte le azioni necessarie per liquidare le basi del terrorismo in qualunque regione del mondo”. Non può sfuggire come questa dichiarazione – ed altre sullo stesso tono – richiami da vicino quelle, ad esempio, dell’establishment di Washington all’indomani dell’11 settembre: il diritto all’uso del first strike teorizzato dal sottosegretario alla Difesa Wolfowitz. A tutta prima altro elemento che sembrerebbe destinato ad avvicinare le politiche di Mosca e Washington; e non a caso Putin sta manifestando una sempre maggior “comprensione” per le ragioni che hanno condotto george W. Bush in Iraq. E tuttavia non è possibile non vedere come primo oggetto di un – eventuale e, al contempo, probabile – attacco preventivo russo contro il terrorismo sarebbe la Georgia. Proprio quella Repubblica di Georgia che, resasi indipendente da Mosca nel ’91, è oggi il punto di riferimento della politica caucasica statunitense. Quella Georgia per il cui territori passano tre dei quattro oleodotti che convogliano verso occidente il petrolio a partire dalla base di Baku nel Caspio azero; uno dei quali trova il suo sbocco nel porto georgiano di Adzaristan, mentre gli altri due proseguono attraverso la Turchia.
Questi tre oleodotti “georgiani” – il quarto passa attraverso il Daghestan e la Cecenia, per inoltrarsi, poi, in territorio russo – sono ritenuti strategici dagli strateghi ed economisti statunitensi. Che puntano proprio sul petrolio del Caspio per procedere alla differenziazione del rifornimento energetico e svincolarsi, quindi, dalla pesante ipoteca saudita. Ma Mosca ha con la Georgia molte ragioni di attrito, a partire dalla rivendicazione della provincia dell’Adzaristan, la cui indipendenza da Tbilisi sembra venire fomentata dallo stesso Cremlino, intenzionato ad impedire che le risorse energetiche della regione sfuggano al suo controllo strategico. Ma ragione ancor più appariscente di conflitto è rappresentata dal fatto che i servizi d’informazione russi hanno da tempo identificato territori georgiani come base di partenza e/o collegamento logistico dei gruppi terroristi ceceni. In particolare le Gole di Pankisi – nominalmente sotto la sovranità georgiana, di fatto controllate dal clan (islamico) di Ghellayev, di origine cecena – rappresentano una importante retrovia del terrorismo. Qui sembra abbiano sede, infatti, numerosi campi di addestramento dei guerriglieri; e sempre attraverso il Pankisi passano i gruppi armati ed i rifornimenti che sostengono gli indipendentisti ceceni di Maskhadov e i terroristi islamici di Basayev.
Un intervento di Mosca nella zona, non potrebbe, quindi, non avere conseguenze sul piano internazionale. Anche perché ben difficilmente Putin potrebbe accontentarsi di un’operazione chirurgica nel Pankisi – tentativi precedenti in questa direzione essendo già falliti – e dovrebbe/potrebbe cogliere l’occasione per riaffermare l’autorità – o, per lo meno, il “protettorato” – russa su tutta la Georgia. Il che costringerebbe Washington ad una complessa rinegoziazione di tutti gli equilibri dell’area caucasica e, in particolare, del problema del controllo degli oleodotti. Problema reso in prospettiva ancor più spinoso dall’affacciarsi sulla scena di un altro potenziale “giocatore concorrente”: la Cina. Il Governo di Pechino, infatti, da tempo guarda con sempre maggior attenzione alle terre comprese tra l’Asia Centrale ed il Caucaso, che hanno il loro fulcro nel Mar Caspio. Ed anche qui lo fa, inevitabilmente, per due ragioni distinte. Da un lato la Cina ha il problema di una crescita dei movimenti indipendentisti uiguri nella provincia occidentale dello Xinjang. Movimenti che, da originariamente, “etnici” stanno progressivamente assumendo caratteri “religiosi”, gli uiguri di religione islamica venendo finanziati dall’internazionale wahhabita e infiltrati dalla rete jihadista. Lo Xinjang, infatti, sembra rientrare nel disegno di un Grande Califfato esteso dal Medio-Oriente al Caucaso e sino all’Asia centrale che è l’obiettivo della strategia di molti gruppi collegati fra loro da un rete di rapporti (Al Quaeda?), da una comune ideologia fondamentalista ( il wahhabismo o la tradizione salafita) nonché dall’ambizione di costruire una nuova potenza globale islamica , attraverso il controllo delle principali vie del petrolio. Il che permetterebbe al “Califfato” di puntare letteralmente il coltello alla gola del “nemico” occidentale. Ma un tale “controllo” risulterebbe disastroso anche per la crescita dell’economia cinese, che, tra l’altro si trova di fronte alla necessità impellente di aumentare le proprie importazioni di petrolio e, al contempo, di differenziare le fonti da cui le acquista.
La Cina ha “sete”: una crescita annua del PIL intorno al 9% necessita di un costante aumento dell’approvigionamento energetico. Ed oggi come oggi Pechino dipende in gran parte da Mosca e dal petrolio sudanese. Troppo insicuro ed incerto l’avvenire del Sudan; troppo rischiosa una dipendenza esclusiva da Mosca, soprattutto oggi che Putin ha ricondotto le grandi Compagnie russe sotto il controllo politico del Cremlino. Annientando, di fatto, la Yukos, che era il principale partner dei cinesi. A questo punto il petrolio del Caspio diventa un obiettivo cui il governo di Pechino non può non mirare. Il che, però, comporta un crescente ingerirsi nelle questioni delle repubbliche centro asiatiche e dello stesso Caucaso. Un’ingerenza di cui i recenti “Trattati di Shangai” e, soprattutto, gli accordi bilaterali con il Kazakhistan rappresentano solo il primo (evidente) passo. Anche qui vediamo, in prospettiva, riproporsi una situazione rapporti non molto dissimile da quella in essere tra Mosca e Washington. Pechino, nel prossimo futuro, dovrà, da un lato, convergere con russi e statunitensi nella lotta contro il “nemico globale”, il terrorismo e, soprattutto, la minaccia di un Califfato Islamico. Ma dall’altro lato i suoi interessi strategici – geopolitici e geoeconomici – potrebbero portarla a confliggere tanto con Mosca, quanto con Washington per il controllo delle “rotte” petrolifere del Caspio. Una situazione che presenta, dunque, in prospettiva un groviglio di varianti, per ora, almeno, inestricabili. E’ il groviglio del Caucaso. L’essenza stessa del Grande Gioco.