Il Paese alle urne tra promesse di giustizia per i crimini contro i serbi e speranze di crescita economica
L’otto giugno scorso, dopo l’auto-scioglimento del Parlamento del sette maggio, si sono svolte le elezioni anticipate in Kosovo. Nessun problema di sicurezza, nessun incidente. A vincere, come era facilmente prevedibile, è stato il «Partito democratico del Kosovo» (PDK) del premier uscente Hashim Thaçi, ex capo della guerriglia indipendentista dell’Uck (Ushtria Çlirimtare e Kosovës), con oltre il 31 per cento dei voti. A seguire, subito dopo, si è posizionato il principale partito d’opposizione: la «Lega Democratica del Kosovo» (LDK) con il 26 per cento.
La lista «Srpska» della minoranza serba, ufficialmente sostenuta da Belgrado – che, pur non riconoscendo il governo di Pristina, negli ultimi giorni aveva invitato i serbi a recarsi alle urne per avere dei rappresentanti al parlamento in grado di difendere al meglio i loro interessi -, non ha superato lo sbarramento del 5 per cento. Ciò nonostante la legge kosovara prevede una rappresentanza in parlamento di dieci deputati per la comunità serba e di altri dieci per le altre minoranze.
Due le questioni principali che hanno portato alla caduta del governo: la creazione di un esercito regolare kosovaro e la costituzione di un tribunale speciale per i crimini commessi dall’Uck durante il conflitto con i serbi di quindici anni fa che costò la vita a circa 13mila persone e 1.800 persone – in gran parti serbe – sono tutt’ora disperse. Le elezioni, inizialmente erano previste per il novembre prossimo.
«È una vittoria del Kosovo e dei suoi cittadini. Ci metteremo subito all’opera, giorno e notte, per costruire lo stato che i nostri cittadini auspicano», ha dichiarato a caldo Thaçi, il premier – ora al terzo mandato – più volte criticato in tempi recenti per le condizioni critiche in cui versa il Paese. Il Kosovo, diventato indipendente il 17 febbraio 2008 – dopo un lungo braccio di ferro con Belgrado che non l’ha mai riconosciuta, così come diversi altri Paese quali Russia, Cina, Venezuela, Romania e Spagna – è il più povero dell’area balcanica.
Il tasso di disoccupazione è del 35 per cento e arriva, per i più giovani, fino al 55 per cento. La metà della popolazione vive sotto il livello di povertà e il 12 per cento in povertà estrema. Il salario medio mensile non supera i 350 euro, nel settore privato è la metà rispetto alla vicina Macedonia. E non ci sono segnali positivi per una ripresa in tempi brevi: l’«Agenzia statistica nazionale del Kosovo» ha segnalato che solo nel 2011 sono state chiuse 924 imprese. Le uniche attività economiche di livello sono nelle mani di compagnie straniere, in primis quelle a stelle e strisce.
Come se tutto questo non bastasse in Kosovo la corruzione è altissima. Secondo un recente studio di «Transparency International», una associazione non governativa e no profit che si propone di combattere la corruzione, il Kosovo si classifica al 111esimo posto su 177 Paesi analizzati in tutto il mondo, al pari di Tanzania ed Etiopia. Va inoltre aggiunto che il Kosovo è ritenuto covo della criminalità organizzata per il narcotraffico internazionale e per il traffico d’organi.
In questa complicata situazione non sarà certo facile per Thaçi, che nel programma presentato prima delle elezioni ha promesso una creazione di un fondo per lo sviluppo economico, l’aumento dello stipendio del 25 per cento l’anno nel settore pubblico e la costruzione di una nuova autostrada, andare alla ricerca di alleati in parlamento per formare un esecutivo forte. Anche perché, con i seggi riservati ai serbi e alle minoranze etniche, Belgrado potrebbe incidere sulle decisioni prese da Pristina.
Fabio Polese
Comments 2