Un fulmine a ciel sereno. Dopo le proteste del parco Gezi, in Turchia era tornata la normalità: la spallata anti-democratica era stata respinta, i grandi partiti avevano avviato la campagna elettorale in vista delle amministrative del 30 marzo, il governo aveva rivitalizzato i negoziati di adesione all’Unione europea firmando – il 16 dicembre – l’accordo di riammissione e la road map per la liberalizzazione dei visti. Una calma traditrice.
Proprio il giorno dopo, è infatti scoppiato uno scandalo corruzione – con arresti eccellenti – che rischia di travolgere il premier Recep Tayyip Erdoğan e il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp): sono infatti coinvolti ministri e i loro figli, alti burocrati, costruttori, il direttore della banca pubblica Halkbank. Le accuse: riciclaggio di fondi neri provenienti dall’Iran per aggirare le sanzioni anti-proliferazione nucleare, mazzette per ottenere permessi edilizi in violazione della normativa vigente, illegalità di ogni tipo.
E pensare che l’Akp ha conquistato nel 2002 il consenso della maggioranza dei turchi – allora relativa, 34,2% – promettendo di sconfiggere la corruzione allora rampante, che aveva provocato una crisi politica ed economica drammatica; ak vuol dire infatti “puro”, la piattaforma politico-elettorale proponeva come obiettivi principali la lotta alla corruzione (yolsuzluk), l’eliminazione della povertà endemica (yoksulluk), l’espansione delle libertà compresse dal regime militarista negli anni ’80 e ’90 (yasaklar). Il primo obiettivo, al contrario degli altri due, non è stato evidentemente centrato.
Ma l’operazione del 17 dicembre non ha solo una dimensione giuridica, da cui scaturiscono conseguenze politiche: ed è invece stata palesemente strumentalizzata per finalità direttamente politiche, nella lotta – ormai senza quartiere – tra gli erdoganisti e la confraternita islamica che fa capo a Fethullah Gülen (il seguitissimo imam che da tempo risiede negli Usa). L’Akp e la comunità-cemaat sono stati in effetti per lungo tempo alleati nello smantellare l’ancien régime kemalista, poi negli ultimi due anni – soprattutto in relazione al processo di pacificazione coi curdi e col Pkk, avviato da Erdoğan – hanno cominciato a sferrarsi colpi proibiti; fino all’ultimo assestato dall’Akp: la decisione di chiudere le scuole preparatorie che danno ai gulenisti denaro e influenza, che ha provocato la reazione scomposta dei gulenisti.
La strumentalizzazione è palese perché le indagini – intercettazioni dei ministri comprese – sono state condotte da magistrati e vertici di polizia almeno in parte vicini al movimento; perché gli arresti sono stati condotti in modo tale massimizzarne il numero e l’impatto: in sostanza fondendo filoni tra loro separati, dando simultaneamente in pasto ai media foto, documenti, testi di conversazioni. Sbatti il mostro in prima pagina. Soprattutto per questo motivo, il leader dell’Akp ha gridato al complotto, ha promesso di preservare la “volontà della Nazione” emersa dalle urne (nel 2011, i voti hanno sfiorato il 50%), ha voluto la rimozione di circa 400 ufficiali di polizia. Gülen ha risposto con un video infuocato, diffuso sul web.
Erdoğan ha difeso per qualche giorno i suoi ministri, poi si è reso conto che il loro sacrificio – anche in virtù delle reazioni della base, non compattamente allineata – era indispensabile: nel giorno di Natale sono arrivate le dimissioni e il rimpasto; ma se Zafer Çağlayan (economia) e Muammer Güler (interni) hanno accettato la disciplina di partito e letto un comunicato di circostanza, Erdoğan Bayraktar (ambiente e pianificzione) ha sfidato apertamente il primo ministro invitando anche lui a lasciare in quanto controfirmatario dei progetti di sviluppo urbano incriminati. La borsa e la lira sono andate a picco.
In serata, dopo l’approvazione del presidente Abdullah Gül, è stata annunciata la nuova compagine: con ulteriori avvicendamenti, dovuti alla candidatura di altri tre ministri alle amministrative. E’ il vice premier Bekir Bozdağ che ha assunto la responsabilità strategica della giustizia; mentre gli interni, col conseguente controllo sulla polizia, è stato affidato al sottosegretario della presidenza del consiglio Efkan Ala: un fedelissimo di Erdogan, noto per le sue posizioni illuminate e democratiche. A perdere il posto, anche il ministro per le politiche europee Egemen Bağiş; lo sostituisce una personalità di spicco e conciliante come Mevlüt Çavuşoğlu: ex presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e attuale responsabile per la politica estera dell’Akp, una garanzia di continuità nei negoziati di adesione data a Bruxelles.
Le inchieste però continuano, voci attendibili ma non confermate parlano di un coinvolgimento diretto di uno dei figli del premier e di una ribellione dei nuovi vertici della polizia contro i magistrati che fanno capo a Gülen. Il rimpasto di Natale potrebbe non rivelarsi sufficiente: ma saranno in ogni caso tra tre mesi gli elettori, a meno di ulteriori e rovinosi colpi di scena, a stabilire se l’Akp e il suo leader godono ancora della fiducia del Paese; dopo Gezi, quest’altra mazzata rende però ancora più impervio il sogno presidenziale di Erdoğan: gli stessi gulenisti, sulla stampa da loro controllata, da tempo non fanno mistero della loro preferenza per Gül.
dal nostro corrispondente a Istanbul,
Giuseppe Mancini
Comments 1