Teacher of Strategic Studies at Luiss-GC; member of Limes board; editor of Nomos&Khaos (published by Nomisma); journalist at Rid; and parliamentary advisor, Germano Dottori, intervistato da “Il Nodo di Gordio”, ha messo in luce i risvolti geopolitici e sociali della crisi in Egitto e l’evoluzione delle relazioni internazionali della Turchia, evidenziando i limiti della politica estera di Stati Uniti ed Unione Europea.
Le violente risposte dell’esercito egiziano e i repentini cambi di regime in Egitto, impongono una nuova riflessione sulle cosiddette “Primavere arabe”. Alla luce degli eventi degli ultimi anni, quali prospettive si profilano per la stabilità del Nord Africa e del Medioriente?
Verrebbe voglia di dire che siamo tornati indietro di due anni e che tutto sia in procinto di tornare come prima. Eppure non è così. Con la Primavera Araba è venuta allo scoperto la grande voglia di cambiamento esistente in alcune parti delle società nord-africane e medio-orientali. Sono i giovani delle città in particolare a volere qualcosa di nuovo. Quanto è accaduto prova tuttavia che le aspirazioni di una parte delle popolazioni di quei Paesi non sono una molla sufficiente a produrre rapidamente un cambiamento decisivo. Le rivoluzioni sono diventate un treno per molte forze con interessi spesso divergenti. Nel caos, hanno avuto la meglio i movimenti più organizzati, come quelli legati alla Fratellanza Musulmana ed alle moschee più in generale, che hanno in qualche modo dirottato il processo in una direzione diversa rispetto a quella auspicata, oltre naturalmente agli apparati di sicurezza. Gli Eserciti si sono disfatti di personalità che mal tolleravano usando la piazza. Così, i ragazzi e le ragazze che desideravano una morale collettiva più laica e posttradizionale si sono trovati sotto il tacco di formazioni che hanno invece cercato di imporre un ordine basato su più rigorose interpretazioni della sharia. Di qui, lo scontento, che è stato alimentato anche dagli insuccessi riportati dai nuovi governi nel fronteggiare la crisi economica.
Ora è il momento della repressione militare. A tutto questo, ovviamente, si sono sommate anche le dinamiche geopolitiche regionali, ed in particolare l’urto tra Qatar ed Arabia Saudita, che pare essersi ora risolto in favore di Ryad. Possiamo però concludere che davvero non sia successo nulla?
Non lo credo. Il “genio” è uscito dalla lampada ed ora sono in circolazione idee che presto o tardi si faranno nuovamente strada.
L’incertezza politica dell’Amministrazione Obama nell’affrontare i sommovimenti in Egitto potrebbe essere interpretata come la volontà di “abbandonare” progressivamente il Mediterraneo ritenendolo un quadrante geopolitico non più strategico per la politica estera americana?
Soltanto in parte. Il Presidente Obama desidera senza dubbio ridurre l’esposizione politico-militare americana in molte aree del pianeta ed il Mediterraneo è fra queste. Tuttavia, la scommessa fatta sull’ascesa della Fratellanza Musulmana serviva soprattutto a restaurare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo islamico, dopo gli eccessi della Global War on Terror, e a privare il jihadismo terroristico della sua ragione d’essere. In realtà, Obama si è posto nel solco della continuità con il predecessore George Walker Bush sotto il profilo del sostegno alla democratizzazione del mondo musulmano, vista come antidoto ad Al Qaeda. Obama si è però spinto oltre, accettando la possibilità che la democratizzazione non producesse l’occidentalizzazione dei Paesi islamici. Anche adesso, la Casa Bianca rimane su questa linea e stigmatizza il ricorso alla forza da parte dei militari egiziani.
Ma senza possedere l’influenza di due anni fa. Mubarak venne fermato. Sisi no. Anche perché i soldi che Washington destina all’Egitto ed alle sue forze armate possono ora essere rimpiazzati da quelli provenienti dal Golfo e dall’Arabia Saudita.
La recrudescenza dello scontro tra sciiti e sunniti, rischia di portare ad una nuova e definitiva “fitna”. Quali i possibili scenari per l’Islam politico dopo le crescenti tensioni che dilagano dalla Siria al Libano?
In realtà, l’urto più violento del momento è quello in atto all’interno del mondo sunnita. Da un lato, le forze dell’Islam “popolare” legate al brand della Fratellanza Musulmana, sostenute fino a poco fa dal Qatar, che hanno perso terreno e consensi. Dall’altro, quelle “controrivoluzionarie” finanziate dagli Al Saud, che hanno identificato negli Ikhwan una minaccia assoluta alla loro sicurezza nazionale. Per quanto paia strano, invece, tra alcune fazioni sunnite e gli sciiti ci sono anche importanti convergenze tattiche. Hamas, ad esempio, ha ricevuto sostegni dall’Iran pur essendo legata alla Fratellanza Musulmana. Non escludo che questo modello possa in futuro generalizzarsi.
Conta molto, naturalmente, la logica geopolitica degli interessi nazionali in questione.
Il nanismo della politica estera dell’Unione Europea è evidente anche in questo frangente. Come già accaduto per la Libia, non ha l’impressione che manchi un coordinamento all’interno dell’Ue e, quindi, le relazioni internazionali sono in preda agli interessi dei singoli Paesi aderenti? E il Ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, si sta dimostrando all’altezza della situazione?
Bisogna chiarirsi una volta per tutte un fatto fondamentale. Non è che l’Unione Europea sia un nano. Semplicemente non ha rimpiazzato gli Stati nazionali che la compongono e non esiste un consenso tra i cittadini europei perché ciò si verifichi. Anzi, ogni strappo che viene fatto in avanti, trasferendo porzioni di sovranità verso l’Europa, suscita reazioni e risentimenti. Il problema è che tuttora l’ambito più esteso entro il quale è possibile dar vita ad ordinamenti davvero democratici è la nazione.
Abbiamo elezioni veramente europee, con liste e simboli diversi da quelli che vediamo nelle competizioni nazionali? No. Siamo disponibili ad eleggere un Presidente europeo dotato degli stessi poteri di quello americano? Neppure. Né si vede come si potrebbe farlo. In queste condizioni, non c’è indirizzo politico possibile né controllo democratico sulle decisioni al livello europeo.
Rimangono quindi gli Stati, che sono centri di imputazione di interessi non sempre omogenei, e nel caso europeo mancano delle dimensioni critiche per contare nel mondo contemporaneo.
Ovviamente, le tensioni sono massime nel campo della politica estera e di sicurezza, dove si scontrano le contrapposizioni secolari tra le maggiori potenze europee. Va comunque ricordato che in uno scacchiere in cui è in drastico calo l’influenza statunitense non si vede come gli europei potrebbero far meglio. Non ci riuscirebbero neanche se fossero al massimo della coesione possibile. Quanto ad Emma Bonino, è una personalità di spicco, autorevolezza e grande prestigio internazionale. Rimane tuttavia il Ministro degli Esteri di una media potenza. Quindi con possibilità operative alquanto limitate. Prima di chiedere miracoli ai singoli, come Paese dovremmo chiederci se davvero vogliamo contare qualcosa, sopportando i sacrifici necessari all’acquisto di una maggiore influenza internazionale, e soprattutto in vista di quali obiettivi. Ho l’impressione che sotto questo profilo l’establishment della Prima Repubblica avesse le idee più chiare. Forse anche per la maggiore semplicità degli scenari della Guerra Fredda.
Per alcuni anni si è parlato di un “modello turco” per il Medioriente. La politica dello “Zero problemi con i vicini” del Ministro degli Esteri della Turchia, Ahmet Davutoğlu, ha subito tuttavia una battuta d’arresto. Ritiene che sia stato il modello a non funzionare adeguatamente o è ipotizzabile l’esistenza di una strategia per mettere in difficoltà il nascente astro turco come potenza regionale?
Dal mio punto di vista le difficoltà incontrate dalla Turchia sono naturali. Quando emerge un Paese di forti ambizioni sulla scena internazionale non è che gli altri gli facciano volentieri spazio, con un “prego, si accomodi”. La conseguenza più frequente è invece l’innesco di reazioni di bilanciamento.
La Siria è uno dei campi di battaglia dove la spinta espansiva turca viene assorbita e logorata. Ecco cosa è successo ai turchi: la crescita delle loro aspirazioni ha suscitato precocemente l’allarme dei vicini. Il resto è stata una logica conseguenza. Mi sembra che la leadership di Ankara ne abbia preso atto e mi spiego anche così il tentativo di Erdoğan di compensare lo scacco subito sul piano della politica estera con un’accelerazione delle politiche interne di matrice islamista. Che peraltro gli hanno provocato ulteriori difficoltà: far presto non aiuta neanche lì. Ora rischia il fallimento del suo progetto. Il contrasto con l’esperienza cinese non potrebbe essere più significativo. Anche la Cina sta sviluppandosi notevolmente: ma ha avuto la cura di proiettare la sua ascesa nel lunghissimo periodo. Questo ha fatto sì che Pechino iniziasse ad incontrare resistenze molto più tardi di Ankara.
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