Il 29 Aprile, il leader della maggioranza libanese Saad Hariri – figlio ed erede di Rafik, ucciso a Beirut nel 2005, assassinio di cui fu, per lo più, incolpata Damasco – si è incontrato con il suo “collega” irakeno, il Primo Ministro Nuri Al Maliki. Un incontro, al di là delle dichiarazioni formali, estremamente teso e “preoccupato”. Entrambi i leader arabi, infatti, temono l’effetto domino sui loro paesi della crisi attraversata dalla vicina Siria. Hariri, per altro, già nel Dicembre del 2009, aveva compiuto una “storica” visita a Damasco, ed incontrato Bashar Assad, da molti ( se non tutti) indicato come responsabile della morte di suo padre. Un incontro nel segno della real politik, visto che Saad, sunnita e a capo di una coalizione di partiti libanesi “moderati”, dimostrava di aver ben compreso di non poter governare a Beirut senza un accordo con Hezbollah, il potente Partito di Dio, sciita, finanziato da Teheran ed armato da Damasco.
Lo stesso realismo ha informato l’incontro di ieri fra Hariri e lo sciita Maliki, che governa a Baghdad con una coalizione – altrettanto, se non più complicata – a maggioranza sciita. Realismo che porta entrambi a temere la destabilizzazione dei precari equilibri medio-orientali, ed il precipitare dei loro paesi in una nuova situazione di guerra civile. Un rischio sempre incombente sul Libano, ed ancor più su l’odierno Iraq. Nelle ultime settimane infatti Baghdad e le altre principali città irakene hanno conosciuto una recrudescenza sia del terrorismo sia degli scontri fra milizie. A partire dal 15 aprile, quando si sono registrati 5 attentati con autobomba in territorio irakeno, quattro nella sola Baghdad. Non i primi, purtroppo, e neppure gli ultimi.
Poi a Kirkuk , centro del Kurdistan irakeno, di fatto ormai autonomo, il 23 vi sono stati violenti scontri fra l’esercito e gruppi di miliziani sunniti, portando, da quel giorno, al dispiegamento di notevoli forze di sicurezza. A Tikrit, poi, il centro della provincia di Anbar, il cuore del famigerato “Triangolo sunnita”, che i marines statunitensi chiamavano il “Triangolo della morte”, appena il 27 aprile sono stati uccisi alcuni miliziani sunniti dei Consigli del Risveglio, i famosi Sahwa (Figli dell’Iraq) una coalizione tribale che combatte duramente contro le forze affiliate ad Al Qaeda, ma che – per quanto armata, a suo tempo, dagli americani – intrattiene rapporti alquanto difficili anche con l’esercito regolare di Baghdad, fedele (si fa per dire) ad un Governo largamente controllato dalla coalizione dei partiti di ispirazione sciita.. E secondo Al Jazeera dalla metà del mese milizie tribali sunnite hanno assunto il controllo di Suleiman Beik a 170 K. Nord di Baghdad, costringendo truppe e forze di sicurezza regolari al ritiro. Per altro il segno che la situazione sta, rapidamente degenerando è stato dato anche, forse soprattutto dal provvedimento con cui il Governo di Baghdad ha sospeso, due giorni fa, la licenza a ben dieci televisioni satellitari, fra cui la potentissima Al Jazeera di proprietà dell’Emiro del Qatar, accusate di “confessionalismo” e di “incitamento alla lotta armata”. Lo stesso Nuri Al Maliki, nei giorni scorsi, si è più volte spinto a parlare delle violenze che, con oltre 200 morti, hanno insanguinato in aprile l’Iraq, definendole un portato di influenze esterne, in particolare dalla vicina Siria. E ha paventato l’esplodere, devastante, di nuovi conflitti confessionali in tutto il Medio Oriente.
In effetti, l’Iraq appare davvero sull’orlo di una nuova guerra civile, che potrebbe facilmente prendere l’aspetto, biblico, di una “guerra di tutti contro tutti”, da profezia dell’Apocalisse: non solo sciiti contro sunniti, ma sciiti fedeli al Governo di Al Maliki contro gruppi radicali eterodiretti dall’Iran, e sunniti legati alla rete qaedista contro miliziani tribali Sahwa e curdi contro tutti; senza dimenticare che il tutto si staglia sullo sfondo della grave tensione geopolitica che sta attraversando, un po’ come una febbre terzana, tutto il Medio Oriente. E che, al momento, è esplosa nel conflitto civile in Siria. Una tensione che vede lo stesso Iraq divenire sempre più terreno di confronto fra le due “potenze” che si contendono il primato nella regione: l’Iran e l’Arabia Saudita, forte, quest’ultima, della coalizione fra le petro-monarchie del Golfo e, soprattutto, della potenza del Soft Power mediatico, con il diretto controllo di Al Arabya e l’accordo con il Qatar che possiede Al Jazeera.
Un confronto geopolitico e geo-economico, certo, ma che risente pesantemente della questione confessionale. Infatti, se Teheran si fa forte della sua leadership nell’Umma sciita, è chiaro che Riyadh ormai ambisce al primato e controllo della, più vasta, comunità arabo-sunnita, facendo leva, soprattutto, sui movimenti salafiti prepotentemente emersi in tutto il Maghreb e nel Medio Oriente con le Primavere Arabe. Inoltre non va dimenticata la particolare attenzione di Ankara alla situazione del Kurdistan irakeno, soprattutto a fronte dei recenti accordi con i quali il Governo Erdogan punta a porre fine alla guerriglia curda in territorio turco del PKK.
In questo scenario, reso ancora più pericoloso dai grandi interessi petroliferi – e dalla conseguente presenza in territorio irakeno di oltre ventimila contractors privati al soldo delle multinazionali petrolifere – il rischio di una prossima “libanizzazione” del paese appare pericolosamente concreto. E Al Maliki – che ha appena vinto le elezioni amministrative in otto provincie su dodici – sembra ben cosciente che si tratta di una minaccia che non può venire affrontata solo come un fatto interno all’Iraq, ma che necessita di un riassetto complessivo degli equilibri della regione.
Andrea Marcigliano