Oltre 600 civili massacrati, tra questi 63 bambini, 106 donne, 70 anziani. Bruciati vivi, torturati, decapitati, mutilati. Gli orrori, in guerra, non mancano mai ma, almeno, i civili dovrebbero essere risparmiati. A Khojaly, nella notte tra il 25 e 26 febbraio del 1992. Le truppe armene, regolari ed irregolari, che entrarono nella cittadina del Nagorno Karabakh non fecero distinzioni tra uomini e donne, tra bambini ed anziani. Tutti azerbaigiani, tutti da eliminare.
Una strage che è pesata sui rapporti tra Azerbaigian ed Armenia in tutti questi anni. Che ha accompagnato un conflitto che, forse, si è concluso alla fine dello scorso anno con il ritorno del Nagorno Karabakh sotto il controllo di Baku.
Eppure, anche di fronte ad una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle risoluzioni dei parlamenti di Paesi di ogni continente, c’è che insiste a negare le responsabilità della strage. Sono proprio questi atteggiamenti a frenare il raggiungimento di una vera pace tra i due schieramenti. Perché le violenze della guerra si possono superare solo dopo che le responsabilità sono state riconosciute, solo dopo le ammissioni di colpa per episodi che non hanno giustificazione.
I tentativi di rifiutare la paternità di una strage, ipotizzando “faide interne” che riportano agli anni in cui in Italia si cercava con identiche parole di nascondere i crimini delle Brigate Rosse, servono solo a mantenere alta la tensione. Con le conseguenze che si vedono in questi giorni proprio in Armenia.
Quando, invece, Azerbaigian ed Armenia avrebbero assoluta necessità di ristabilire relazioni serene per poter affrontare in modo proficuo la normalizzazione del Nagorno Karabakh.
Augusto Grandi
Senior Fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
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