La folla scende in piazza in Argentina contro Cristina Kirchner, presidente peronista del Paese Latinoamericano. E subito i blog internazionali riprendono la notizia entusiasti. In marcia per la libertà, come le primavere arabe. In realtà le folle proprio non si son viste, ma le Ong colorate, quelle che hanno finanziato le rivolte nell’Europa dell’Est o in Africa del Nord in attesa di spostarsi in Asia, non demordono.
In piazza, proprio come in Russia, non sono scese le masse popolari, ma la ricca borghesia urbana. Ed è curiosa questa somiglianza internazionale delle proteste. Per il momento, a Buenos Aires, siamo solo ai primi tentativi, per saggiare il terreno. E le motivazioni della protesta sono incredibili: aver allargato il diritto di voto, aver coinvolto i giovani e gli immigrati, aver avviato un piano di recupero dei carcerati. Tutto qui? Sì, tutto qui. Con la motivazione, non proprio politicamente corretta, che con le nuove leggi volute dalla “presidenta” andranno al voto masse di persone non sufficientemente preparate ed informate sulla democrazia. Paradossale. Ma, appunto, son solo le prove di piazza.
In attesa che lo strangolamento silenzioso dell’economia argentina dia i suoi frutti, produca povertà e scateni la protesta di quelle stesse masse che non devono poter votare. Perché le scelte del governo argentino di favorire la produzione interna a scapito delle importazioni, la nazionalizzazione di alcuni asset strategici, come l’azienda petrolifera, hanno provocato malumori nella comunità finanziaria internazionale. Con problemi di finanziamento per il Paese Latino Americano, con frenate negli investimenti esteri, con ripicche sul fronte dell’export.