Cresce l’instabilità nello spazio ex-sovietico. Un groviglio storico, politico e culturale che rischia di innescare una reazione domino, dai confini orientali dell’Europa alle pendici del Caucaso. Nel frattempo, le istituzioni internazionali e l’Unione Europea paiono inadeguate, nonostante quasi tutti gli stati coinvolti facciano parte del Partenariato Orientale dell’UE. Un programma a cui aderiscono Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e la martoriata Ucraina.
Per meglio comprendere le dinamiche in svolgimento ho chiesto aiuto all’On. Riccardo Migliori, Presidente dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE dal 2012 al 2013. Nata come una conversazione, si è trasformata in una lectio magistralis di cui ho il piacere di condividere alcuni spunti.
OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Istituita in piena guerra fredda come forum multilaterale per il dialogo e negoziato tra est ed ovest, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’organizzazione ha spostato il proprio baricentro ad est, per promuovere stabilità, pace e democrazia. Eppure, nonostante i 57 Stati partecipanti tra Nord America, Europa ed Asia, l’OSCE sembra attualmente inerte. «Non inerte, ma inerme» – mi corregge Migliori. «Le difficoltà operative – prosegue – nascono dapprima da problemi istituzionali interni, e in secondo luogo da un decadimento del ruolo delle organizzazioni internazionali, nel complesso». Da luglio scorso, l’organizzazione vive uno stato di precarietà, non essendo stati rinnovati i vertici delle quattro istituzioni principali: Segretario Generale, Rappresentante per la libertà dei media, Alto Commissario per le minoranze nazionali e Direttore dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (ODIHR). Al momento, la massima autorità è il Presidente in esercizio Ditmir Bushati, ex Ministro degli Esteri Albanese. Il risultato è una minore credibilità dell’istituzione e la riduzione drastica dei mezzi d’azione, anche nelle questioni di primaria competenza come, per esempio, l’annoso conflitto nel Nagorno-Karabakh
Il Nagorno-Karabakh è un territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaigian. Il primo lo occupa indirettamente, sostenendo la Repubblica di Artsakh a maggioranza armena che de facto lo controlla militarmente. Dall’altra parte, Baku lo reclama come territorio proprio forte del riconoscimento de jure della risoluzione 62/243 dell’Assemblea Generale dell’ONU. «La questione non si estende solo all’Oblast del Nagorno Karabakh storicamente conteso – puntualizza Migliori –, ma anche ai cosiddetti “territori di sicurezza”, aree azerbaigiane che la Repubblica di Artsakh controlla e reputa incedibili per la propria sopravvivenza». Sin dal 1992, l’OSCE ha istituito il Gruppo di Minsk, guidato da Russia, Stati Uniti e Francia, per mediare fra le due parti e trovare una conclusione pacifica al conflitto. «Un’iniziativa che vive oggi una fase di grave afasia» sottolinea Migliori. A causa della pandemia, sono stati ritirati gli osservatori OSCE presenti nella regione, perdendo il monitoraggio in loco poco prima che iniziassero gli scontri. La situazione attuale è figlia dell’impossibilità di massimizzare il risultato dei Principi di Madrid (2007), che prevedevano: la via diplomatica come unico mezzo di risoluzione, il rientro delle popolazioni azere espulse e il referendum per l’autodeterminazione. «Una situazione complessa – continua Migliori. Da una parte il Presidente dell’Azerbaigian Heydar Aliev (salito al potere dopo la sconfitta con l’Armenia nel 1994), e poi il figlio Ilham attuale Presidente, hanno costruito l’identità politico-nazionale sull’integrità territoriale e la promessa di riconquistare il Nagorno-Karabakh. Dall’altra il Governo armeno, sebbene avvantaggiato per le possibili ricadute economiche di un eventuale accordo, soffre non solo la pressione della propria popolazione ma anche quella degli esuli armeni». A causa della diaspora, gli armeni nel mondo sono il doppio dei residenti in Armenia e non accettano nessun compromesso con l’Azerbaigian, a loro avviso, complice dei Turchi nel genocidio del 1915. Una partita a cui si sono aggiunti troppi giocatori esterni (Turchia, Iran ed Israele in primis), rendendo difficile la soluzione. La Russia stessa non riesce nel tradizionale ruolo di mediatrice, come dimostra il fallito cessate il fuoco. Ragioni storicoculturali che chiariscono la posizione di Macron: «La Francia, oltre ad aver copiato il cognac di Erevan, ospita oggi la terza comunità più numerosa di esuli armeni, dopo Russia e Stati Uniti»
La Bielorussia è un altro dei fronti di instabilità. Ad agosto la rielezione del presidente Aleksandr Lukashenko, con 80% dei consensi, ha scatenato proteste nel paese. L’opposizione capitanata da Svetlana Tichanovskaja ha accusato il governo di brogli e di reprimere le proteste con la forza. L’OSCE si è subito resa disponibile a mediare tra le parti, ma senza successo. Per Lukashenko il problema è una questione interna, ed ha accusato diversi paesi occidentali di manovrare dietro alle proteste. Mosca forte dell’Unione Statale con Minsk si è schierata in difesa dello status quo in Bielorussia invitando tuttavia le parti al dialogo. Ritenendo le elezioni viziate da brogli e schierandosi contro la repressione delle proteste, l’Unione Europea ha deciso di sanzionare gli scrutinatori ed organizzatori delle elezioni, ma non il presidente Lukashenko. Una posizione mediana «debole e alquanto rischiosa» nelle parole di Migliori. Debole, perché incompleta se si vuole colpire il potere ritenuto non democratico. Rischiosa, in quanto le sanzioni ridurranno la possibilità di dialogo, rafforzando l’unione Minsk – Mosca ed allontanando entrambi dall’UE. Una situazione che rischia ricadute anche all’interno dei confini comunitari, con l’avvenuta chiusura dei confini della Bielorussia con Lituania e Polonia. Non va sottovalutato infatti il peso della comunità polacca in Bielorussia, che conta 400 mila persone su un totale di 10 milioni di abitanti. Concentrati nella regione di Grodno e di Brest, la comunità polacca si è ritrovata straniera in patria a causa della ridefinizione dei confini post-Jalta. Supportata da Varsavia ha da sempre sostenuto gli oppositori di Lukashenko. Critica la posizione di Salvini. La Lega, unica astenuta sulle sanzioni UE contro il governo di Minsk, rischia così di venir isolata in Europa anche dagli alleati ‘sovranisti’ del gruppo di Visegard.
Una situazione generale dalle prospettive tutto fuorché rosee. Migliori puntualizza come, se non si riuscirà a stabilizzare la situazione e a trovare soluzioni di dialogo, vi è rischio che le proteste vengano emulate anche in paesi vicini dove il malessere socioeconomico causato dalla pandemia diventa terreno fertile per la contestazione delle prossime elezioni. Georgia, Moldavia,Romania si apprestano al voto prima della fine dell’anno con un clima interno incerto e movimenti politici che si interrogano sul futuro del paese, schierandosi a favore o contro il consolidamento delle relazioni con Mosca.
Rodolfo Maria Salvi
Junior Fellow think tank “Il Nodo di Gordio”
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