Da quasi tre mesi il Mali era scosso da proteste guidate dal Movimento del 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-RFP), che hanno portato decine di migliaia di manifestanti a gremire la Piazza dell’Indipendenza di Bamako e quelle delle altre principali città per chiedere le dimissioni del presidente Ibrahim Boubacar Keita (noto con l’acronimo IBK). Una richiesta che affondava le proprie radici in almeno cinque recriminazioni.
Alla base del malcontento popolare c’era l’inefficace risposta alla pandemia di Covid-19 da parte del governo, alla quale si univano altre motivazioni come la corruzione endemica concentrata nel settore pubblico e l’elevato tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, aumentato del 7% da quando IBK nel 2013 era salito al potere. Ad alimentare il dissenso anche la crescita della povertà estrema, che secondo le stime della Banca mondiale affligge il 42,7% della popolazione maliana. E non ultima, la mancanza di un’efficace risposta alla crescente insurrezione jihadista, che ha reso ingovernabili vaste aree del Mali e costretto al rinvio delle elezioni legislative previste per l’ottobre 2018.
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