di ANDREA MARCIGLIANO
Il problema principale della Russia odierna è un problema di “Soft Power”. Di incapacità di comunicare / propagandare / trasmettere un’immagine positiva e, soprattutto, “attraente” fuori dai propri confini. Questa incapacità ha, ormai, origini antiche. In effetti già l’Impero zarista non si è praticamente mai dimostrato in grado di competere su questo piano con quello britannico nel, secolare, Grande Gioco. Un Grande Gioco che ha visto, sempre, gli inglesi avvantaggiati dalla loro capacità di suggestionare e conquistare le menti ed i cuori delle élite locali dei popoli dominati, facendone, più dell’esercizio della potenza militare, il vero punto di forza del Raj britannico. Poi, l’URSS ha tentato di controbattere lo strapotere del Soft Power americano e occidentale con lo strumento della penetrazione ideologica; tentativo inizialmente fortunato, ma, alla lunga, rivelatosi fallimentare e crollato sotto il peso delle insanabili contraddizioni fra ideologia e realtà.
Oggi, l’incapacità di comunicare rappresenta il principale tallone d’Achille della risorgente potenza russa. Lo si è potuto verificare proprio in occasione delle ultime Elezioni Legislativa del 4 Dicembre. Tutti i media internazionali hanno, infatti, enfatizzato a dismisura il (supposto) tracollo di Russia Unita e il conseguente indebolimento della diarchia Putin/Medvedev. In realtà l’analisi spassionata del voto avrebbe dovuto portare a conclusioni molto diverse. Infatti Russia Unita ha mantenuto una salda maggioranza alla Duma con il 49,5% dei voti, mentre quelli “perduti” sono andati ai nazional-comunisti di Gennadij Zjuganov (92 seggi con il 19,2%), ai conservatori di destra di Russia Giusta guidati da Sergej Mironov.( 13,25% e 64 seggi), e i Libera-Democratici, l’estrema destra di Vladimir Zirinovskij che ha ottenuto 56 seggi e l’11,68% dei voti. Una catastrofe invece per Jabloko, i cosiddetti “liberali occidentali” di Sergeij Mitrokhin che, nonostante avessero goduto degli appoggi della stampa internazionale – e, presumibilmente, dei finanziamenti “esteri” secondo la denuncia dello stesso Putin – hanno raccolto un misero 3,4%, restando fuori dalla Duma.
Un tale risultato avrebbe potuto venire rappresentato in due modi decisamente favorevoli al Cremlino. In primis, la fine del voto plebiscitario e l’ingresso alla Duma di forti partiti di opposizione, potrebbe venir letto come il segnale (importante) dell’evoluzione del sistema Russia verso una “democrazia compiuta”, fugando ombre e paure tra i partner occidentali, soprattutto europei. In seconda istanza, i tre partiti di opposizione sono, tutti, decisamente più estremisti, nazionalisti ed anti-occidentali – nonché nostalgici dell’imperialismo sovietico – di Russia Unita di Putin e Medvedev. Che avrebbero potuto cogliere l’occasione per accreditare una nuova immagine “moderata” e democratica – nonché aperta al dialogo – del loro Governo. Ma così non è stato. La Russia si è riavvitata in sterili polemiche – a mero uso interno – sulle ingerenze “straniere” nelle elezioni, dando così la possibilità alla Clinton di ribattere con il solito, efficace, slogan della difesa della democrazia e della libertà dei popoli. E di mascherare,così, la frustrazione di Washington per il fallimento di Jabloko e delle forze politiche russe su cui aveva puntato le sue carte.