Il recente raid dei guerriglieri peshmerga del PKK – il Partito Comunista Curdo – che ha causato morti e feriti non solo fra i militari delle basi attaccate, ma anche fra la popolazione civile turca, appare, ad un’attenta disamina, un segnale estremamente preoccupante. Preoccupante non solo per Ankara, che vede improvvisamente riaccendersi un conflitto da tempo sopito e che, sotto molti punti di vista, sembrava avviato verso una (possibile) ricomposizione politica, ma anche, e forse soprattutto, per tutta la vasta regione compresa fra il Medio Oriente e l’area del Golfo Persico. Regione cruciale, tanto dal punto di vista geopolitico che da quello economico, per gli equilibri di tutto il Great Middle East, ovvero la “dorsale” che va dal confine indo-pakistano sino al Maghreb nord-africano. Ed è interessante rilevare come questo improvviso e particolarmente cruento risveglio dell’indipendentismo curdo in territorio turco si stagli sullo sfondo di una scena regionale – e al contempo internazionale – in rapida metamorfosi. Una scena nella quale la Turchia sta, rapidamente, assumendo un ruolo ed un peso per molti versi inusuale.
Inusuale, per lo meno, sulla scena internazionale dell’ultimo secolo, ché, per altro, la strategia portata avanti dal governo di Erdogan e delineata dal suo Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, è, sotto molti aspetti, una rilettura del ruolo geopolitico “naturale” della Turchia, ovvero il costituire il baricentro di un sistema di equilibri tra Mediterraneo Orientale, Maghreb, Balcani, Caucaso e Golfo Persico. Ruolo che trovò la sua massima incarnazione politica nella lunga stagione della Sublime Porta, e che oggi la nuova élite di Ankara tende ad interpretare attraverso la tessitura di una fitta rete di relazioni diplomatiche ed economiche, finendo così con il presentarsi come naturale forza di mediazione e decantazione per le molte tensioni che gravano pericolosamente su questo complesso quadrante geo-politico.
Un ruolo che ha rappresentato uno scarto rispetto a quello assunto dalla Turchia nel secondo ‘900 di pilastro della NATO, in stretta osservanza dell’alleanza con Washington. Non sarebbe, però, corretto parlare di una rottura fra Ankara e l’Alleanza Atlantica; piuttosto della presa d’atto che, dopo la fine della Guerra Fredda, la veste di “guardiano” dei confini orientali del Mediterraneo era, ormai, un abito vecchio, per altro troppo stretto per le ambizioni della nuova Turchia. Ambizioni concretamente fondate su una crescita economica, sociale e culturale che ne ha fatto, in breve, una delle più interessanti realtà sulla scena internazionale.
A questa esigenza interna della Turchia di disegnarsi un nuovo ruolo geopolitico, si sono, poi, aggiunti due fattori exogeni. In primo luogo l’ottuso rifiuto dell’Unione Europea di ammettere Ankara nel proprio ambito; rifiuto dettato, prevalentemente, dagli interessi particolari di Berlino e Parigi. In seconda istanza, la politica di Washington in Iraq che, soprattutto con l’avvento dell’Amministrazione Obama, sembra sempre più propensa a favorire nel nord del paese la costituzione di uno Stato Curdo indipendente. Cosa che non poteva non preoccupare Ankara, per gli inevitabili riflessi nel suo territorio nazionale.
Riflessi resi crudamente palesi dagli accadimenti di queste ultime settimane. Infatti i raid dei peshmerga del PKK sono partiti dal Kurdistan irakeno, dove i guerriglieri hanno i loro “santuari” con la connivenza del governo autonomo regionale e il sostanziale placet di Baghdad.
Ed è, come dicevamo, interessante notare – al di là di ogni dietrologia – come questo sia accaduto in un momento delicato per tutta la scena regionale, con Ankara particolarmente attiva – e quindi anche esposta – su vari fronti diplomatici. Fronti che ci limitiamo, qui, a ricordare con un breve elenco.
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La crisi siriana e, in senso, più lato, di tutti i limitrofi paesi arabi del Golfo, dove Ankara sta sempre più cominciando a rivestire un ruolo di Grande Protettore dei popoli arabi – soprattutto sunniti – contro la repressione dei diversi regimi. Posizione che ha portato la Turchia alla tensione con Damasco e a raffreddare le sue relazioni con Teheran.
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La questione palestinese – da leggere, appunto, nella chiave della Turchia come mediatrice e Grande protettore – che non solo ha congelato i rapporti con Israele, ma sta anche incidendo negativamente sui rapporti bilaterali con Washington.
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La questione dello sfruttamento dei giacimenti di gas naturale prossimi a Cipro, che vede Ankara schierata a difesa dei diritti dei turco-ciprioti contro le pretese della Cipro greca spalleggiata dall’Unione Europea e, secondo alcune fonti, anche da interessi israeliani e statunitensi.
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La crisi libica, dove la Turchia – che, scientemente, non ha partecipato alla guerra mossa dalla Nato – sembra vocata ad un importante ruolo di mediazione nell’intricato groviglio di conflitti tribali, etnici e politici che potrebbero trascinare il paese maghrebino in una situazione di perenne guerra civile. Un ruolo importantissimo, che però potrebbe dare molto fastidio alle potenze, in particolare Francia e Gran Bretagna, che si ritengono – avendo finanziato, appoggiato e preparato la rivolta contro Gheddafi – in diritto di “spartirsi le spoglie” della Libia.
Come dicevamo, un elenco breve e, forzatamente, sommario. E tuttavia sufficiente per indurci a riflettere su cosa potrebbe muoversi a monte del riaccendersi cruento dell’indipendentismo curdo.
Andrea Marcigliano
Senior Fellow