Un Grande Gioco a tre, quello che si sta delineando come scenario geopolitico – futuro, o meglio già quasi presente – nella cruciale, vastissima, macro-regione che va dal confine indo-pakistano ad oriente sino al Maghreb nordafricano ad occidente. Un Grande Spazio, che si è soliti definire Great Middle East, che cela in sé la perdurante tensione fra Delhi e Islamabad nel Kashmir, il conflitto afgano, l’Iraq, la Siria attraversata da fremiti di rivolta e seriamente minacciata dal rischio di una guerra civile con connotati “religiosi”,la cancrenosa questione israeliano-palestinese, il Maghreb delle, cosiddette, Primavere Arabe, la Libia, un Egitto sempre più inquieto, l’Algeria ove le braci della guerra civile ancora bruciano sotto la cenere e, infine, la Mauritania costantemente instabile e i altrettanto costante tensione col Marocco per la questione del Sahara Occidentale. Senza dimenticare che questo Grande Medio Oriente a Est tange sia l’Asia Centrale – il “cuore del mondo” nella definizione del padre della moderna geopolitica Halford McKinder – sia l’Oceano Indiano, nuovo terreno di confronto primario fra le odierne, ed emergenti, potenze commerciali e talassocrati che, mentre ad Ovest incide da un lato sui precari equilibri dell’Africa sub sahariana, dall’altro su quelli di un Mediterraneo che, dalla fine della Guerra Fredda, sembra avere riassunto tanto una notevole rilevanza geo-strategica, quanto una sempre più marcata fluidità d’equilibri. Ed è, appunto, in tale contesto che si va delineando questo Grande Gioo a tre cui abbiamo accennato, una partita per molti versi inedita anche se, come sempre, si nutre ed intesse di echi e suggestioni molto antichi.
I “tre” antagonisti in questione sono; la Turchia, l’Iran e – solo in apparenza più defilata – l’Arabia Saudita. Tutte e tre potenze – pur di ben diversa grandezza e con ancor più diverse carature specifiche – emerse e/o emergenti al centro dello scenario grande medio-orientale in seguito al progressivo defilarsi o declinare di coloro che lo avevano occupato – e in un certo senso dominato – nei decenni scorsi. In primo luogo gli Stati Uniti che, con l’attuale Amministrazione, appaiono sempre più incapaci di mantenere una strategia chiara e definita e, di conseguenza, garantire un sistema di equilibri come proiezione dei loro interessi. In sostanza la politica di Obama appare davvero sconcertante per quanto si è dimostrata sino a qui: indecisa, ambigua, sovente rinunciataria. Politica, o assenza della stessa, che nel Great Middle East ha creato un vero e proprio vuoto. Vuoto che, nel caso della crisi libica – crisi che, per altro, puzza molto di provocata ed etero diretta – Cameron e soprattutto Sarkozy hanno provato a colmare, mettendoci sopra, come si suol dire, il proprio cappello. Ma le velleità neo-colonialiste di Parigi e Londra sobno e restano, appunto, solo velleità. Troppo inconsistente il reale peso strategico e geopolitico di entrambe, troppo lontane, più che geograficamente culturalmente, dal teatro grande-medio-orientale perché vi possano assumere davvero un ruolo di primo piano. Anzi, senza l’ombra lunga di Washington che comunque continua a proiettarsi, la guerra libica avrebbe già messo a nudo crudelmente l’inconsistenza della presunta grandeur francese, ed anche la debolezza di fondamenta di quello che fu l’Impero di Sua Maestà Britannica. Coloro che questo vuoto sono, dunque vocati a riempire sono, vuoi per ambizione, vuoi per nece3ssità vitale, sauditi iraniani e turchi.
L’Iran da tempo sta giocando una complessa partita geopolitica, tentando sempre più di arrogarsi il ruolo di potenza geopolitica di area, intendendo per “area” quel Golfo Persico e regioni limitrofe che costituisce il pivot del Great Middle East. Ambizione suffragata dall’essere quello iraniano il paese più popoloso e, per certi versi, anche uno dei più ricchi, almeno a livello potenziale, con una struttura statuale sostanzialmente “moderna” ed una forza militare di tutto rispetto, in parte eredità (positiva) dell’orma lontana stagione di Reza Palhevi. Lo strumento principale della strategia iraniana è stato, in questi ultimi anni, rappresentato dall’ideologia religiosa, ovvero del proporsi di Teheran come riferimento e salvaguardia di tutti i gruppi sciiti – in genere minoritari e sovente oppressi – sparsi per il Grande Medio Oriente e regioni limitrofe. Strategia che ha portato all’avvicinamento con la Siria – governata dalla casta militare, appartenente alla minoranza allawita, considerata una pur lontana, derivazione dello sciismo – il sostegno ad Hezbollah in Libano, ai ribelli sciiti del Nord Yemen, nonché l’occhieggiare ai gruppi sciiti, ismaeliti ed affini sparsi dal Pakistan all’Afghanistan – dove Teheran ha assunto il ruolo di protettrice della minoranza Asara – dal Tagikistan – dove il 7% è sciita duo decimano e ben il 40% di confessione ismaelita fino agli arabi sciiti che controllano, oggi, gran parte dell’Iraq – ed in particolare la regione petrolifera del sud – e ai loro confratelli maggioritari nella costa orientale dell’Arabia Saudita e nel Bahrein, dove, però, sono sostanzialmente oppressi dalle locali dinastie sunnite wahabite. Politica che, ovviamente, tiene in costante apprensione Riyadh. Per altro l’Iran è stato anche, al di là del discorso confessionale , fra i principali sostenitori del movimento palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, vera spina nel fianco di Israele. Rapporto, quello privilegiato con Hamas oggi probabilmente foriero di tensioni con Ankara, visto che il premier turco Erdogan sembra sempre più intenzionato a stringere i rapporti con l’ANP di Abu Mazen.
Erdogan in effetti appare oggi come il soggetto agente più attivo in tutto il vasto scenario medio-orientale e maghrebino.. Il congelamento delle relazioni con Israele – pronubo “l’incidente” della nave Mavi Marmara” – sta venendo abilmente usato dal premier turco per accreditarsi come leader del mondo arabo, sfruttando, anche, lo stato confusionale in cui versa l’Egitto dopo la Primavera Araba e la cacciata di Mubarak. E proprio in Egitto Erdogan è stato recentemente accolto con un bagno di folla quale non si vedeva dai tempi di Nasser. Poi, sempre al Cairo, nel cuore di al Azhar, la più prestigiosa ed influente istituzione universitaria del mondo islamico, ha pronunciato un forte discorso rivendicando la legittimità delle istituzioni statuali laiche. Di fatto assumendo così la guida del cosiddetto mondo arabo “moderato”, guida in questo momento vacante. In questo senso va intesa anche la posizione assunta dalla Turchia nella crisi libica, contraria ufficialmente al conflitto scatenato dalla NATO – di cui continua, per altro, a rappresentare uno dei principali pilastri militari – e tuttavia abilissima e sorniona nel tessere una fitta rete di rapporti con il governo provvisorio di Bengasi. Di qui anche la minaccia – lanciata dal Ministro degli Esteri Davutoglu, il vero stratega di Erdogan – di un intervento militare turco in Siria, se il governo di Assad continuerà nell’oppressione cruenta del dissenso. Minaccia che, pur sotto traccia, sta alienando le relazioni fra Ankara e Teheran.
Infine l’Arabia Saudita, il cui ruolo, in questo grande gioco, appare piuttosto di risulta, ovvero determinato da una duplice paura. La paura, innanzi tutto, che gli iraniani sobillino le minoranze sciite della Penisola arabica, per altro stanziate nelle aree petrolifere cruciali. Paura antica, ché già all’indomani della Rivoluzione Khomeinista, il re saudita Feisal cominciò potentemente a promuovere e finanziare i gruppi fondamentalisti e radicali sunniti – dai salafiti del Maghreb ai talebani afghani ed oltre – in funzione anti-iraniana. L’Arabia, infatti, non èuna potenza geopolitica nel senso classico del termine, troppo poco popolata e troppo debole dal punto di vista militare e strutturale, ma possiede immense ricchezze e, per altro, detiene il controllo dei luoghi santi dell’Islam: La Mecca e Medina. Potere economico e religioso/culturale che diviene pervasiva influenza geopolitica nel mondo arabo sunnita, di cui i Banu Saud rivendicano una sorta di leadership “morale”. Leadership oggi messa pesantemente in discussione dall’entrata in gioco della Turchia di Erdogan. Contro la quale, come contro l’Iran di Ahmadinejad i sauditi sembrano ancora una volta voler far leva sui loro alleati naturali: i Fratelli musulmani, il Gia algerino, i Talebani afghani e tutti ggli altri gruppi che formano la complessa e polverizzata galassia del fondamentalismo e del jihadismo sunnita.
Andrea Marcigliano
Senior Fellow