Sconfitto di misura il peronismo kirchneriano, ma la coalizione vincente è divisa al proprio interno. Sullo sfondo il rischio di politiche liberiste sul modello Menem che avevano portato l’Argentina al default
Mauricio Macri è il nuovo presidente dell’Argentina: si è imposto al suo avversario Daniel Scioli con il 51,40% dei voti nel ballottaggio per le elezioni presidenziali.
Un risultato che è frutto di un’oculata strategia di coalizioni portata avanti dal partito del PRO di Macri e che ha convogliato tra le sue fila i conservatori neoliberali e una parte del radicalismo. Tra i primi figurano alcuni esponenti della politica e dell’economia degli anni della dittatura militare e del periodo menemista: Carlos Melconian, Domingo Cavallo, Alfonso Prat Gay e Patricia Bulrich. Per quanto riguarda il partito radicale, già distrutto negli anni novanta dall’“Alianza” guidata da De la Rua, i “sopravvissuti” Saenz e Carriò hanno finito l’operazione di smembramento del partito prestando a Macri la propria struttura politica necessaria per imporsi a livello nazionale.
Ecco perché oggi il 48.6% della popolazione, che ha votato per Scioli, rappresenta un blocco unico di elettori fedeli ad un progetto portato avanti con successo per dodici anni dai governi, prima di Nestor Kirchner e poi di Cristina Fernandez, mentre l’attuale risicata maggioranza assume le sembianze di un pastone, il cui unico tratto comune é rappresentato dalla volontà di detronizzare il “Kirchnerismo”. Il 10 di dicembre toccherà, infatti, alla presidenta Cristina Fernandez de Kirchner consegnare il testimone presidenziale all’entrante Maurizio Macri. La sua vittoria, di stretta misura, pone ora un dubbio: cambiare o non cambiare? Cambiemos o no cambiemos? Questo è il problema.
Continua la lettura dell’articolo a cura di Mauro Margoni de “Il Nodo di Gordio” per ilGiornale.it -> L’Argentina sceglie il cambiamento. O il ritorno ad un buio passato