Washington sta ritirandosi e lasciando il mondo in balia del caos. Una scelta strategica dettata dai radicali di sinistra di cui Obama è espressione. Il Califfato dell’ISIS non rappresenta un problema militare, ma politico. Il dialogo con l’Iran è sempre rimasto aperto, ma la vera minaccia continua ad essere quella del regime degli ayatollah
di Andrea Marcigliano
“Molti osservatori pensano che i fallimenti della politica estera di Barack Obama siano imputabili ad inesperienza ed errori suoi e del suo staff. Ma non è così. Al contrario, Obama sta realizzando esattamente quello che progettava sin dall’inizio. E quella che, per tutti o quasi, appare come una sconfitta, per lui e per gli uomini che lo circondano è un grande successo”.
A parlare è Michael Ledeen, nel salotto di un centralissimo hotel di Roma dove trascorre alcuni giorni del suo soggiorno italiano, destinato a raccogliere il materiale per un nuovo libro. Un libro sull’ebraismo italiano. Perché il professor Ledeen è anche un raffinato italianista, autore di un importante saggio su D’Annunzio a Fiume e, soprattutto, noto per la famosa “Intervista sul Fascismo” con Renzo De Felice, che alla metà degli anni ’70 cadde come un macigno nelle acque stagnanti della storiografia italiana sul Ventennio. Diciamo “anche” perché Ledeen è molte altre cose: in primo luogo un analista politico di altissimo livello, già consulente de National Security Council, del Dipartimento della Difesa, dello stesso Dipartimento di Stato americano. Uno dei consiglieri più ascoltati da Reagan e poi da Bush padre, il cui nome è emerso in varie occasioni, nelle trattative con l’Iran negli anni ’80, in quelle con il gli Hezbollah libanesi in seguito. In Italia è stato consulente del nostro SISMI e, tra le altre cose, fu l’uomo che indicò la “pista bulgara” in occasione dell’attentato a Giovanni Paolo II. E durante la crisi di Sigonella fece da interprete e mediatore nella conversazione telefonica fra Craxi e Ronald Reagan. Negli anni, non lontani, di George W.Bush era ancora un consigliere molto vicino al Presidente, da molti considerato una sorta di padre nobile dei famosi neocon. Etichetta che, però, rifiuta.
“Sinceramente non ho mai compreso cosa si intenda con il termine neoconservatori. In genere i media etichettano così uomini con storie e posizioni molto diverse. Per esempio, io non sono mai stato d’accordo con Wolfowitz (il vice Segretario alla Difesa che teorizzò l’attacco all’Iraq) sulla scelta di muovere guerra a Saddam Hussein. Secondo me era un obiettivo sbagliato. Il vero pericolo era, e resta, l’Iran degli ayatollah, che andrebbe, però, affrontato più con strumenti politici che militari. Eppure veniamo entrambi etichettati come neoconservatori. E questo solo perché, oggi, chi ritiene necessario combattere per difendere e diffondere la democrazia nel mondo viene considerato un conservatore, un uomo di destra. Mentre, un tempo, era patrimonio comune, basti pensare a Presidenti come Wilson e Kennedy…Alla fin fine, ritengo che vi possano essere posizioni intermedie fra l’imperialismo bellicista e l’isolazionismo”.
Mentre Obama? gli chiediamo..
“Obama è un radicale di sinistra, un intellettuale come se ne trovano a centinaia ad Harvard e dintorni. Ed anche in Italia. Non per nulla viene da una famiglia di sinistra, la madre era un’antropologa, il padre uno studente kenyota, marxista, che odiava gli Stati Uniti. E non ha caso ha studiato, appunto, ad Harvard, fucina dei radical statunitensi – sorride – George W., invece, aveva fatto Yale, e poi ha radici nel Texas; un altro mondo. Comunque Obama aveva ben chiaro in testa cosa voleva fare sin dall’inizio. Era, tra le righe, nel suo programma già nel 2008. Ed ora lo sta realizzando. Come le dicevo, un grande successo, sotto il suo punto di vista. Ma non per l’America”.
Ma quale sarebbe questo programma?
“Vede, Obama, e quelli come lui, vogliono un’America più debole, più chiusa in se stessa, retroflessa solo sui suo problemi economici e sociali interni. E,di conseguenza, vogliono abbandonare il mondo al suo destino. Rinunciare ad incidere sulla storia e sugli equilibri globali. Per questo l’attuale Presidente ha favorito in tutti i modi i nemici degli Stati Uniti, dai jihadisti in Siria e Iraq agli ayatollah iraniani. Senza dimenticare quanto avvenuto nei paesi del Maghreb con le cosiddette Primavere Arabe. Ma, come dicevo, non si tratta di errori, bensì di scelte politiche ben precise. Che Obama aveva già delineato nel suo famoso discorso all’Università cairota di Al Azhar appena eletto, e cominciato a portare avanti con il ritiro frettoloso dall’Iraq prima, con quello ormai imminente dall’Afghanistan oggi…”
E le conseguenze di queste scelte?
“Beh, le abbiamo sotto gli occhi. Il Maghreb è nel caos e ovunque avanzano gli islamisti radicali. L’Iraq è abbandonato a se stesso fra l’incudine iraniana ed il martello dei jihadisti dell’ISIS. In Siria infuria la guerra civile, e la scelta, anche lì, è tra il regime di Assad, alleato di Teheran, e gli islamisti radicali. In Afghanistan tornano ad avanzare i Talebani. Un disastro generale, cui sarebbe stato facile porre freno e rimedio. Ma Obama non vuole, perché per lui questo è un grande successo. Quello che voleva”.
E Israele?
“Beh, ovviamente Israele si sente sempre più minacciata. E sola. Anche perché gli israeliani sono coscienti che Obama non è loro amico. Preferisce gli islamisti radicali e addirittura gli iraniani. Come dicevo, è una scelta dettata dall’ideologia”.
In effetti i rapporti fra Obama e Netanyahu sembrano molto freddi…
“Io non sono un esperto della situazione politica interna israeliana. Il mio campo è sempre stato, piuttosto, l’Europa e, naturalmente, l’Iran ed il Grande Medio Oriente. Ma anche un non esperto può facilmente realizzare quanto l’attuale politica della Casa Bianca possa essere pericolosa per la sicurezza israeliana. E quindi accentuare l’instabilità e il rischio di nuovi conflitti nella regione”.
Una grave minaccia è rappresentata proprio dall’avanzata dell’ISIS in Iraq e Siria, che sembra dimostrare un salto di qualità del jihadismo: dalle azioni terroristiche alla guerra aperta…
“Oh l’ISIS… – sbuffa – quanti sono questi miliziani jihadisti? Secondo le informazioni in nostro possesso 10, al massimo 15 mila….Quindi, da punto di vista militare non rappresentano una vera minaccia. Basterebbe lasciarli avanzare ancora un po’, al massimo sino a Baghdad, e costringerli a concentrarsi per un’offensiva, inviando truppe NATO e statunitensi. E poi una volta che si sono concentrati, distruggerli con una serie di raid aerei. E del Califfato autoproclamato non resterebbe più niente…”
Tutto facile, allora….
“No, perché, come le dicevo, il problema non è militare, ma politico. E qui manca la volontà politica di risolver la questione. Anche perché Obama non vuole fare nulla per contrastare decisamente i jihadisti. Soprattutto non vuole contraddirsi e correggere l’errore compiuto con il ritiro dall’Iraq inviando nuove truppe…”
Che sarebbero, però, necessarie…
“Essenziali. Senza truppe di fanteria che li appoggino, i raid aerei non servono a nulla. Inutile avere il dominio dell’aria se non si può sfruttarlo adeguatamente. “
Però l’ISIS sembra avere sbaragliato più volte l’esercito regolare irakeno…
“E quale novità sarebbe? Il livello di combattività dell’esercito irakeno è da sempre molto basso. E non è appunto una novità che fallisca e fugga girando le spalle al nemico. È un esercito che ha fallito contro gli iraniani, quando sembrava avere tutto a suo favore, scelta del luogo e del momento, livello di armamenti, forza numerica. Hanno stentato ad occupare il piccolo Kuwait, e poi nella prima Guerra del Golfo, Desert Storm ha spazzato via gli irakeni in poche ore. Quanto all’ultima volta, beh, si è visto come l’esercito si è sbandato ed arreso in pochi giorni. Con l’eccezione solo di pochi reparti della Guardia Repubblicana….”
Torniamo all’Iran, che lei da sempre ritiene la maggiore minaccia nel Grande Medio Oriente. L’Amministrazione Obama sembra avere riaperto un dialogo con Teheran…
“Bella novità! checché si creda comunemente il dialogo fra Washington e Teheran non si è mai interrotto dopo la Rivoluzione Verde di Khomeini nel ’79. Io stesso, nei primi anni ‘80, fui mandato da Reagan ad incontrare degli emissari dell’allora premier khomeinista. I canali diplomatici, sotto sotto, sono sempre rimasti aperti. Ma ciò non toglie che l’Iran rappresenti una minaccia seria”.
Però molti vedono nel Presidente Rohani i segni di una svolta moderata…
“Vedono male, accecati da illusioni e propaganda. Rohani non è un moderato o un liberale, anzi. Con lui, in Iran, le libertà ed i diritti civili stanno venendo conculcati molto peggio che negli anni di Ahmadinejad”.
E la soluzione del problema iraniano quale potrebbe essere? Un implosione interna, magari dettata dai diversi secessionismi regionali? Baluci, azeri, curdi…
“Questo, sinceramente non lo credo possibile. Piuttosto penso a un movimento di forze di un’opposizione interna, che sta crescendo per ragioni sociali, civili ed economiche. Un movimento che andrebbe aiutato dall’esterno, come, ad esempio, si è fatto con le sanzioni… i secessionismi etnici e regionali non mi sembrano avere abbastanza forza…”
Tranne i curdi….
“È vero. I curdi in Iraq rappresentano l’unica vera forza organizzata capace di opporsi alle milizie dell’ISIS. I loro peshmerga sono molto combattivi ed hanno ripreso Kirkuk; anche in Siria i curdi stanno ottenendo notevoli successi sia contro l’esercito di Assad, sia contro i jihadisti. E sono molto vicini a realizzare il loro sogno antico di un Grande Kurdistan. Il che metterebbe in ridiscussione tutti i confini e gli equilibri della regione”.
Un problema per Teheran….
“Dipende. Sicuramente un problema per il regime degli ayatollah. Ma se la situazione interna iraniana evolvesse, come auspico, verso forme di governo diciamo…più liberali, il colpo per Teheran sarebbe relativamente ammortizzabile. Non così per Ankara”
Perché?
“Beh, intanto perché le province a maggioranza curda oggi parte della Turchia sono vaste, e la perdita territoriale, in caso di nascita del Kurdistan, sarebbe gravosa per i turchi molto più che per gli iraniani, che sono toccati dalla questione in misura minore. E poi perché i curdi sono molti milioni in Turchia, diffusi un po’ in tutto il paese. I censimenti turchi non li registrano, ma si valuta che un parte consistente della popolazione della stessa Istanbul sia di origine curda. Per lo più convivono tranquillamente con i turchi, ma il conflitto per il Kurdistan potrebbe innescare una mina tale da far esplodere il delicato, e fragile, mosaico turco. E gli accordi, recenti, di Erdogan con il PKK di Ocalan non bastano a disinnescare questa minaccia”.
Ma se la Turchia implodesse questo avrebbe un effetto devastante su tutto lo scacchiere mediterraneo. Ed anche sulla NATO:…
“È vero. E questo renderebbe urgente che i membri europei della NATO si assumessero di più le loro responsabilità. Soprattutto a fronte del crescente disimpegno di Washington. Ma i paesi europei non hanno una politica estera comune. E, soprattutto non vogliono spendere per le Forze Armate”.
Come in Italia, dove si prevedono altri tagli al bilancio della Difesa…
“Se è per questo, l’Italia è ridotta male da un bel po’ di tempo. Ricordo che già molti anni fa mi trovai a parlare con un alto ufficiale dei carabinieri, che sono, oggettivamente, una delle vostre forze di élite. E quando gli dissi che avrebbero dovuto rifornirsi di certi nuovi armamenti, questi si mise a ridere con amarezza, e mi disse: ma quali armamenti e tecnologie, non abbiamo nemmeno più i soldi per la benzina… Così non si può fare politica di difesa. Così non si può fare la politica internazionale”.
Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”