Le simmetrie e i luoghi prima e dopo Escher
di Paolo Zammatteo
L’opera di Fatih Mika è unica in quanto non possiamo inserirla compiutamente in nessuna corrente artistica.
Nonostante questo però possiamo riconoscere all’artista alcuni aspetti del pensiero e della cultura della tradizione turca che sono decisamente presenti nelle sue opere. Sono le simmetrie e l’uso di riferimenti precisi all’arte ottomana, sia di tipo figurativo che in forma di citazione da altre categorie espressive.
L’immaginazione e la creatività dell’artista intervengono all’interno di regole e canoni non strettamente regionali e la ricerca di Fatih Mika si espande dal particolare all’universale. Oltre a usare rimandi, in qualche misura autobiografici, alla geometria e alla matematica, crea le sue opere tramite l’incisione su rame e zinco, una tecnica decisamente occidentale. Altra sua caratteristica è il fatto che la raffigurazione riprende sempre elementi di tipo realistico. Lo stesso vale per la rappresentazione dello spazio, che viene costruito con la prospettiva tradizionale. Inoltre è presente il collegamento con la cultura scientifica moderna: dalla psicologia della percezione (con i rapporti figura-sfondo e le visioni impossibili), alla matematica e alla cristallografia (le tassellature, le simmetrie, le metamorfosi).
Sono opere che esprimono ed evidenziano l’immaginario di Fatih Mika, ma che potrebbero descrivere la complessità dell’epoca attuale, dominata dalla rivoluzione tecnologica e dove la creatività è spesso canalizzata all’interno del metodo scientifico.
Con le sue composizioni propone inoltre un concetto molto importante del pensiero postmoderno: quello della complessità, e cioè di una visione pluralistica del mondo nel quale coesistono gli opposti e molteplici punti di vista. Ogni immagine può essere esaminata sotto vari aspetti, che ogni volta permettono di scoprire una sfaccettatura diversa da quella che potrebbe apparire subito dopo. Questa complessità del mondo non significa però per Mika né assurdità né caos, ma semplicemente una realtà da esaminare, e proprio attraverso le sue opere cerca di trovare le possibili connessioni, interazioni e nuove relazioni tra i fenomeni, sviluppando un pensiero forte circa il flusso dei linguaggi e delle potenzialità della comunicazione. È lo stesso pensiero che, pur in un sistema di relazioni meglio distinte e molto meno ibridate, animava la visione del mondo dei latini, dei bizantini, dei rinascimentali e degli ottomani.
L’artista analizza con efficacia il dialogo fra l’astrazione della realtà, percepita attraverso le immagini, e il desiderio di conoscenza. Usa con eleganza l’allusione e le fonti originali, per condurre subito il lettore verso il soggetto principale, la bellezza, che nella tradizione di impronta mediterranea deve coincidere sempre con il contenuto dell’opera.
Si può applicare utilmente un confronto con Cornelius Escher, che è stato un emblema della forza della matematica. Oggi Fatih Mika inserisce l’universo razionale nel flusso semiotico dei mondi possibili, declama la forza del linguaggio visivo.
Le risorse tecniche a cui attingono i due artisti sono sostanzialmente identiche. Ma il loro dialogo a distanza è una sintesi per tutti gli adepti di Ulisse. Ad esempio Escher riuscì a rendere un modello della geometria spazio-temporale su cui si basa la teoria della relatività di Einstein che permette di descrivere la nascita e l’evoluzione dell’Universo. Di lui rimangono gli scritti, attraverso i quali, schernendosi, fa radicare le sue tesi nel labirinto umano. Un labirinto che, come le proporzioni pitagoriche, i solidi platonici o la Kaballah, è servito a spiegarsi la magia e l’ordine del reale, anche se è indefinito nello spazio e nel tempo.
Il labirinto ha avuto un riferimento centrale univoco dalla Preistoria fino al Rinascimento. Ma con la modernità ha perso il suo centro: Albert Einstein e Max Planck estendono la relatività a spazio, tempo e linguaggi matematici. Il labirinto si rifugia nelle cose, perché l’uomo è smarrito: la città è quella centrifuga di Pentesilea, un’unica, grande periferia (I. Calvino, Le città invisibili, 1972). Il soggetto è la crisi postmoderna, descritta dal labirinto di J. L. Borges (El Aleph, 1949): «Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sbocco, l’alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù. Altre aeramente aderenti al fianco d’un muro monumentale, morivano senza giungere ad alcun luogo.»
Fatih Mika aggiunge una nota al postmodernismo e alle sue tante metafore, suggerendo il valore etico quando si impone di cercare modalità di controllo all’interno della propria realtà (ecco la contaminazione con la poesia anatolica oppure con i dervisci danzanti), oppure suggerisce un senso compiuto alle sue opere anche quando è visionario. Sotto questo profilo si istituisce un parallelismo ideale con le tesi di Maurizio Ferraris sulla necessità di un nuovo realismo (2012), dove vengono nuovamente messi al centro dell’agire artistico i legami possibili e intellegibili tra oggetto e significato.
Il linguaggio di Fatih Mika è versatile e traducibile in ogni direzione. Ma un luogo, per quanto interiore e nascosto, c’è sempre.