La profonda preoccupazione turca delle sorti siriane prosegue e si intensifica. La crisi prolungata che sta sconvolgendo lo Stato siriano tiene Ankara in apprensione da oltre 16 mesi e, alla luce degli ultimi avvenimenti lungo la frontiera comune, urge una soluzione o le forze internazionali si troveranno nuovamente coinvolte in un conflitto mediorientale.
Turchia e Siria sono oggi davanti ad una situazione non più sostenibile. Una situazione di stallo che rischia troppo facilmente d’infiammarsi su un qualsiasi punto dei circa novecento chilometri di confine turco-siriano. Oggi lungo quella linea non sono più ammessi errori.
Dall’inizio degli scontri in Siria la striscia di terreno che separa la regione turca dell’Anatolia Sud-Orientale dai governatorati Nord-siriani di Aleppo, Al-Raqqa ed Al-Hasaka, è stata teatro di continui flussi migratori verso i centri d’accoglienza di Hatay e Kilis, e di alcuni episodi di
sconfinamento da parte delle Forze Armate dell’uno e dell’altro Stato.
L’attenzione lungo il confine è altissima da ambo i lati. Le autorità siriane sono impegnate nel controllo dei ribelli e nel contenimento dei movimenti migratori da e per lo Stato turco. Le Forze Turche, dal canto loro invece, proteggono la sicurezza nazionale e sorvegliano le vie di fuga che ogni giorno sono percorse da centinaia di rifugiati siriani. Un equilibrio estremamente fragile che ha già fatto registrare episodi di tensione tra Ankara e Damasco a causa di operazioni militari spintesi oltre confine. Crepe lungo la frontiera che tuttavia i due Stati confinanti sono stati in grado di superare seppur tra numerose polemiche.
L’abbattimento di un jet turco ad opera della contraerea siriana, avvenuto il 22 Giugno scorso ed in cui hanno trovato la morte i due piloti dell’aeronautica militare turca, ha segnato però un punto di rottura più netto, una frattura che rischia di mutare il volto della crisi siriana in maniera definitiva.
Incidente, errore di valutazione, dimostrazione di forza, risposta a sconfinamento del velivolo turco nel cielo nazionale siriano? Le versioni ufficiali dei fatti sono molto lontane e le polemiche anche in questo caso lasciano il tempo che trovano. Quello che rileva sono le conseguenze che l’abbattimento ha inevitabilmente comportato. Ankara si è mostrata decisa, ferma nelle sue decisioni nel segno della determinazione e della precauzione. L’amministrazione turca ha così predisposto un massiccio rinforzo delle forze di presidio lungo il confine, portando dietro le linee di frontiera siriana truppe, armi a lungo raggio, blindati e altri veicoli militari.
Non si tratta tuttavia di una mera azione allo scopo di intimorire le autorità siriane, bensì di un’operazione concreta supportata dall’annuncio di un cambio nelle regole d’ingaggio delle Forze Armate impegnate nell’area. «Ogni elemento armato in avvicinamento» ha dichiarato il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan «sarà considerato equivalente ad una minaccia e sarà trattato in quanto tale come un obiettivo militare». Un ultimo avvertimento in linea con le ambizioni strategiche turche che vuole chiarire ogni dubbio sulle reali capacità del Paese. Una mossa che indica giusta prudenza ma che allo stesso tempo funge da monito nei confronti di Damasco perché se la Turchia è pronta a trattare ogni possibile minaccia lungo il confine siriano come un obiettivo militare, significa che è pronta a farlo anche con tutti gli sviluppi che ne conseguono, non ultimo fare ricorso all’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica in caso di ulteriori errori da parte del regime del Presidente Assad.
La risposta della Turchia è stata ancora una volta una risposta razionale, misurata, ponderata.
A dimostrazione della maturità politica raggiunta da questo Stato che ha sì forti interessi nel voler giocare un ruolo da protagonista nella soluzione della questione siriana, ma che è ben consapevole della complessità della situazione e si guarda dallo scatenare una guerra aperta che finirebbe per innescare numerosi conflitti etnici e scontri inter-religiosi. Una guerra potenzialmente in grado di sconvolgere gli stessi equilibri interni turchi e che oltretutto rischia di compromettere l’immagine nazionale nella regione mediorientale in cui è ancora vivo il ricordo negativo di una Turchia imperiale.
“L’atto ostile”, così come è stato definito l’abbattimento del jet dal Governo di Ankara, rappresenta solo l’apice di una crisi che è sempre più acuta e sempre più internazionalizzata. Non si è trattato infatti di un semplice incidente tra Paesi confinanti, bensì di un atto che ha finito per contrapporre due coalizioni di forze: quella a favore del regime del Presidente Assad e quella che ne vorrebbe la caduta. Si tratta di una contrapposizione a tratti più o meno velata, come nel caso dei veti pro-Siria in sede Consiglio di Sicurezza ONU da parte di Cina e Russia, a tratti più esplicita, come nel caso del palese aiuto turco alle forze politiche e militari siriane d’opposizione.
Se da un lato la Siria riesce a contrastare le rivolte grazie al sostegno e alle armi di Mosca, dall’altro la Turchia ospita e appoggia il Consiglio Nazionale Siriano e le Forze Armate della Free Syrian Army, segno di una chiara ed univoca presa di posizione a favore di una nuova Siria.
Uno scenario così definito comporta nondimeno conseguenze da non sottovalutare. Sin tanto che la Russia continuerà a finanziare e rifornire Damasco, bloccando inoltre l’azione internazionale, la situazione in Siria ha buone possibilità di mantenersi nello stato attuale: repressioni violente contro i ribelli e presa salda del regime. Questo non farà che mettere in difficoltà Ankara la quale, attraverso il suo sostegno all’opposizione siriana, rischia di ritrovarsi a patrocinare il fallimento di una rivolta piuttosto che promuovere le autorità di una nuova Siria democratica.
Cosa farà la Turchia a questo punto? Come scongiurare un simile evolversi della situazione?
L’impressione è che Ankara progetti una stretta maggiore per indirizzare la crisi siriana verso una svolta. Seppur sul piano formale l’amministrazione turca dichiari di non voler ricercare lo scontro diretto e l’intervento armato, all’interno del Governo Erdogan si fa spazio la consapevolezza che l’uso della forza sia tanto necessario quanto ancora impraticabile. La Siria non è la Libia e, cosa ancor più rilevante – tenuto conto delle aspre polemiche legate alle operazioni svolte in Nord-Africa lo scorso anno – la NATO non ha alcuna intenzione di farne la nuova Libia. Inoltre, il regime del Presidente Assad è ancora forte e gode di credibilità in alleati non di poco conto come la Russia e l’Iran, paesi oltretutto partner della stessa Turchia.
Se dunque un intervento in prima persona non sembra essere praticabile nel breve periodo, per vincere la propria scommessa, alla Turchia non resta che intensificare il sostegno alle forze d’opposizione siriane perché siano quest’ultime a liberare dall’interno la Siria. All’appoggio politico dovrà dunque essere affiancato un concreto aiuto in armamenti ed equipaggiamenti, un cambio strategico dall’attuale politica del “chiudere un occhio” davanti ai movimenti di armi diretti alla resistenza oltreconfine, ad un’assistenza più attiva sul modello dei piani di riarmo dei ribelli siriani messi in pratica in questi mesi dall’Arabia Saudita e dal Qatar.
In definitiva, il conflitto aperto in Siria è giunto alle porte turche, ma è bene che per ora queste rimangano ben serrate. Ankara e Damasco si scrutano allo spioncino, attente a non mostrare segni di debolezza e consapevoli che lungo quel confine non saranno tollerati ulteriori errori.
Matteo Marsini
Esperto di Diritto e relazioni internazionali