di ANDREA MARCIGLIANO
Suscita sempre più attenzione il grande “attivismo” diplomatico del Premier turco Erdogan in Medio Oriente e nel tormentato Maghreb. Un attivismo che ha fatto parlare di strategia “neo-ottomana”, volta a riaffermare il primato della Turchia sulle regioni che, a suo tempo, furono soggetti alla Sublime Porta. Una lettura della politica di Ankara per molti versi riduttiva, e però non priva di elementi di verità, nonché di un forte potere di suggestione. Infatti l’immagine del ritorno sulla scena internazionale di quello che ancora ai tempi di Goldoni si soleva chiamare il “Gran Turco” , non può non esercitare un suo fascino sui commentatori occidentali. Tuttavia sarebbe bene evitare che tali suggestioni storiche e, per molti versi, irrazionali, rendano ciechi sulla complessità dell’odierna strategia di Ankara,teorizzata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il consigliere più vicino ad Erdogan, nonché il massimo studioso turco di geopolitica. Complessità che fa, certo, tesoro della, ricchissima e variegata, tradizione politica e culturale della Turchia, ma che, al contempo, si innerva di una visione decisamente legata alla contemporaneità e, soprattutto, spietatamente realistica.
Realismo che parte dalla comprensione della rivoluzione in atto negli scenari geopolitici mondiali, che, dopo l’implosione dell’URSS e la fine della Guerra Fredda, non hanno trovato ancora un, pur precario, equilibrio. Anzi, l’ultimo decennio, dopo il crollo delle Due Torri di New York, ha dimostrato come ogni pretesa di costruire un nuovo sistema “mono-polare” sia mera utopia, e come, nella realtà, sia ricominciato quel Grande Gioco con più “attori” che era rimasto a lungo congelato nei decenni del dualismo Washington-Mosca. Di qui la presa d’atto da parte di Ankara non solo della possibilità, ma ancor più della necessità di cominciare a giocare un proprio ruolo attivo – da “potenza regionale” – in quell’immenso e cruciale scenario che si usa chiamare Great Middle East, il Grande Spazio geopolitico che va dal confine indo-pakistano sino al Maghreb, l’Occidente del Nord Africa arabo-berbera.. Ed è, appunto, in questa rinnovata dinamica che va compresa la strategia del duo Erdogan/Davutoglu che tanto impensierisce, in questo momento, Washington e le principali Cancellerie Occidentali. Strategia che, appunto, recupera e rilegge sia la tradizione ottomana, sia il “sogno” pan-turanico che accese tante speranze nel mondo turcofono dell’inizio XX secolo. Le rilegge, però, come dicevamo in una chiave diplomatica che non mira a forme di anacronistico imperialismo, bensì a fare di Ankara il perno di un nuovo sistema di equilibri fondato sulla cooperazione economica e/o l’alleanza politica. Obiettivo che non implica necessariamente la rottura di antiche alleanze ed amicizie – come quella con gli States e la partnership NATO – ma che prende atto di come tali sistemi di alleanze siano ormai datati, e, soprattutto, insufficienti davanti alla complessità del mondo contemporaneo. Di qui la frase di Davutoglu: “Nessun problema con i vicini” , divenuta una sorta di mantra della diplomazia turca in questi anni. Di qui il cercare di intervenire negli esplosivi scenari medio-orientali e maghrebini, per porsi come nuovo riferimento – e, soprattutto, punto di equilibrio – in una situazione in cui la strategia di Washington appare sempre più confusa e determinata da impulsi ed interessi contraddittori.
In questa chiave andrebbe letta anche una terza linea dell’azione diplomatica turca. Terza dopo quella “neo- ottomana” rivolta verso Medio-Oriente e Maghreb, e quella “pan-turanica” diretta verso l’Asia Centrale ed il Caucaso. Una linea che ci porta direttamente nel cuore dell’Europa. O meglio, nel suo fianco più debole e critico: i Balcani. Regione la cui criticità viene, in questi ultimi tempi, troppo trascurata e sottaciuta, ma dove le cause che portarono al carnaio dell’ ex-Jugoslavia, negli anni ’90, non solo non sono state rimosse, ma anzi, covando come braci sotto la cenere, oggi potrebbero rivelarsi più devastanti che nel recente passato. E questo perché al perdurare dello stato di guerra civile in Bosnia e alla tensione fra serbi ed albanesi nel Kosovo, si vanno aggiungendo le ambizioni di Skopije alla creazione della Grande Macedonia, l’inquietudine della Bulgaria, la tensione crescente fra Bucarest e Budapest per la mai risolta questione delle minoranze magiare. Uno scenario nel quale intervengono, complicandolo irrimediabilmente, potenze esterne, dagli USA alla Francia, dalla Gran Bretagna ad una Russia che sembra sempre più intenzionata a rivendicare un ruolo guida dei popoli slavi.
In questo quadro appare evidente come la Turchia, che nel suo versante europeo è un paese balcanico, non possa esimersi da intervenire nell’area. Necessità giustamente rilevata da Sergio Romano nei suoi interventi su “Panorama” della scorsa settimana e sul “Corriere della Sera” del 23 sett. u.s.
Per altro non è da questi ultimi giorni che Ankara riserva una particolare attenzione alla regione balcanica, tant’è vero che, proprio all’inizio di quest’anno, Erdogan ha compiuto un importante viaggio diplomatico nelle principali capitali dell’area, viaggio che, significativamente, lo ha portato a toccare Sarajevo, Tirana, Pristina, ma anche Belgrado. Dove ha stretto relazioni politiche e commerciali con quella che sembra, a tutti gli effetti, destinata a diventare il paese trainante la nuova economia della regione (la Serbia, ancorché indebolita dalla crisi finanziaria globale, continua ad avere un PIL tale da suscitare l’invidia dei paesi dell’area euro). Visite di Stato che, come si è detto, appaiono significative della strategia di Ankara. Da un lato proporsi come riferimento per le minoranze islamiche – albanesi, bosniache, turche – sparse nei Balcani e, soprattutto, nell’ex-Jugoslavia; dall’altro disegnarsi un ruolo di potenza regionale e, soprattutto, di mediazione costruendo la cooperazione economica con i principali Stati, in particolare la Serbia.
Strategie solo in apparenza contraddittorie. Infatti l’interpretazione del ruolo di “amica e protettrice” dei musulmani balcanici che Ankara sta declinando, non solo è totalmente esente da forme di fanatismo fondamentalista, ma anzi potrebbe, in prospettiva, diventare il più efficace antidoto contro i tentativi di penetrazione di gruppi jihadisti e/o influenzati dalle dottrine wahabite e salafite propagandate da organizzazioni finanziate da capitali sauditi. In sostanza, la Turchia tende a far leva sull’Islam balcanico come un’identità culturale ed “etnica” piuttosto che religiosa ed ideologica; identità che, nel pensiero di Davutoglu, viene vista come punto d’appoggio per motivare un crescente interesse ed intervento di Ankara nei Balcani. Intervento, però, teso a decantare le ragioni di tensioni regionali, e non ad acuirle. E volto al disegno di un’area di prosperità e cooperazione economica balcanica che trovi, appunto, nella Turchia la sua guida.