Ankara, l’aereo russo caduto sul Sinai e poi Beirut, Parigi e ora il Mali. È perfettamente comprensibile il senso di impotenza che pervade l’attonita società occidentale, inerme di fronte ai molti morti di questa nuova guerra lanciata dal terrorismo jihadista. Una guerra asimmetrica che mette a confronto eserciti regolari e strutture di sicurezza interne degli Stati con gruppi di guerriglieri organizzati e pronti a colpire nel cuore delle nostre città. Una guerra che miete vittime tra i comuni cittadini, giovani, passanti, avventori di locali e che ha avviato quel pericoloso processo di psicosi collettiva che dimostra l’efficacia della strategia dei Signori del Terrore. Ci sentiamo feriti, impauriti, incapaci di reagire di fronte all’ineluttabilità della morte e fatichiamo a trovare una risposta concreta al dilagare della minaccia rappresentata dall’integralismo islamico. Perché si chiede, giustamente, su queste pagine (giovedì 19 novembre) il Pubblico ministero alla Procura di Trento, Pasquale Profiti?
I terroristi di Parigi erano musulmani in gran parte francesi e belgi di seconda e terza generazione. Lasciati liberi, dal governo francese, di andare in Siria a combattere contro Bashar al-Assad per ragioni di interesse geopolitico nella scacchiera mediorientale che il presidente Hollande ha più volte richiamato. Poi sono rientrati in Francia senza alcun tipo di problema. C’è una responsabilità francese in tutto ciò? Parrebbe evidente. Buona parte di questi foreign fighters nasce nelle banlieue, luoghi simbolo del fallimento francese di integrazione e di multiculturalismo. Molto spesso i terroristi hanno iniziato la loro «carriera» come piccoli delinquenti e teppisti, con esperienze di carcere dove sono poi stati indottrinati e influenzati dall’ideologia salafita. E qui si pone un altro problema: come è possibile che l’Occidente abbia identificato nel salafismo e nel wahabismo saudita la radice ideologica di questo male assoluto in salsa islamica e continui a tenere stretti rapporti politici ed economici con Arabia Saudita e Qatar, noti finanziatori delle milizie del Califfato? E ancora: Europa e Stati Uniti, per ragioni di convenienza, hanno finanziato, armato ed addestrato i cosiddetti ribelli siriani, finiti ben presto tra le fila dello Stato islamico o di al-Nusra, la cellula di Al- Qaida che opera a cavallo tra Siria e Libano.
Questi cortocircuiti in politica internazionale si pagano cari. Tanto che l’intervento russo in Siria è ora visto come una manna dal cielo anche dai molti detrattori dello zar Vladimir Putin. La risposta scomposta e affrettata, sull’onda dell’emotività, rischia di perpetuare gli errori già commessi in Afghanistan, in Iraq e in Libia con il rovesciamento dei precedenti regimi senza, tuttavia, aver messo in campo un’adeguata strategia per gestire il vuoto di potere che inevitabilmente si è generato. Un vuoto che ha trascinato Nord Africa e Medioriente nel caos, innescando l’ondata incontrollata di migranti che si riversano nel Mediterraneo e in Turchia per raggiungere l’agognata meta europea. Una Turchia, presa a schiaffi da Francia e Germania negli ultimi decenni quando chiedeva l’ingresso nell’Unione europea, che si sta sobbarcando il peso di 2 milioni di profughi siriani e ora «oggetto del desiderio» di Angela Merkel per evitare l’invasione dei migranti in Europa. E proprio la Turchia – peraltro membro
della Nato – è stata oggetto di un attentato con più di cento morti solo un mese fa che non ha destato poi tanto scalpore. Così come il silenzio assordante ha circondato le vittime della ferocia jihadista in Nigeria o, solo due giorni prima di Parigi, per l’attentato a Beirut. Ma il Libano, si sa, è da sempre il «fegato» del Medioriente.
Sullo sfondo la Fitna, l’atavico scontro tra Sciiti e Sunniti, che consente di comprendere meglio perché in prima linea contro il Califfo Abu Bakr al Baghdadi stiano combattendo la rinata potenza regionale iraniana e le milizie libanesi di Hezbollah. L’Islam è un mondo complesso ed è necessario comprenderne appieno le sue varie declinazioni. C’è un Islam che non si arrende al terrorismo e sarebbe profondamente ingiusto, oltre che banale, associare la fede musulmana all’abominio degli attentati jihadisti. Solo così comprenderemo meglio i tragici fatti di Parigi: il rifiuto dei musulmani delle banlieue è un rifiuto della Francia e del suo stile di vita, prima ancora di essere una adesione all’Islam. Un rifiuto già evidente nel 2001 quando nello stadio parigino i francesi di seconda e terza generazione fischiarono la Marsigliese nella partita contro l’Algeria. È uno scontro non di religione, ma di culture. La vendetta contro il colonialismo di un tempo e contro la stessa accoglienza di stranieri che ora si sentono sradicati dal loro Paese e non integrati in quello nuovo. Ennesima dimostrazione del fallimento della facile retorica dell’accoglienza. Indicare genericamente nell’Islam la causa del terrorismo, è come dire che la causa della febbre è il termometro.
Daniele Lazzeri
Direttore del think tank di geopolitica
«Il Nodo di Gordio»