Mentre il Premier italiano Matteo Renzi, tenta assiduamente di spuntare qualche disponibilità da parte di Bruxelles a cedere sulla richiesta di maggiore flessibilità delle regole europee sui conti pubblici, si è scatenata nel Vecchio continente la guerra tra Mario Draghi e Angela Merkel. Dopo le notizie trapelate a inizio settembre su un’infuocata telefonata tra i due, che il Presidente della Banca centrale europea e la Cancelliera tedesca hanno decisamente smentito, le ultima decisioni di Draghi sulla politica monetaria di Francoforte evidenziano al contrario che il braccio di ferro continuerà anche nei prossimi mesi. Sullo sfondo le differenti posizioni sulla strategie di sostegno all’economia che, non da oggi, vedono la Germania arroccata su posizioni più rigide e meno interventiste nei confronti degli Stati in difficoltà dell’Ue e la volontà della Bce di assolvere al proprio mandato in totale autonomia
La bizzarra ed ancora controversa formula presente nel Trattato di Maastricht, secondo cui il vertice della Bce “non sollecita né accetta istruzioni da alcun governo o altro organismo”, rappresenta per Draghi uno scudo normativo ed istituzionale alle voci critiche che periodicamente si scagliano contro l’operato di Francoforte. L’inaspettato ulteriore allentamento della politica monetaria all’ultima riunione del board della Bce di inizio settembre ha, infatti, portato il livello dei tassi di interesse in Europa al minimo storico dello 0,05 lasciando ben poco margine per ulteriori riduzioni. Mario Draghi, tuttavia, ha ancora qualche freccia al proprio arco. Anzi, molto probabilmente, si è tenuto in riserva l’arma più importante: il bazooka del Quantitative Easing, la possibilità cioè di iniettare massicce dosi di liquidità sul mercato acquistando non solo azioni e obbligazioni ma anche titoli del debito pubblico emessi dagli Stati aderenti all’Unione europea sulla scorta dell’esempio lanciato dalla Federal Reserve americana dopo la crisi finanziaria del 2008.
Pare non vi siano altre strade per uscire dal pericoloso tunnel deflazionistico che sta ammorbando l’Europa. L’aumento vertiginoso della disoccupazione, un Prodotto interno lordo stagnante (quando non in calo come in Italia) e una dilagante spirale recessiva che coinvolge molti Paesi. La politica monetaria della Bce, per ora, non ha dato frutti significativi, ma è servita solo a prendere ancora un po’ di tempo. A rinviare il più possibile il problema, dando un po’ di fiato all’economia attraverso i bassi tassi di interesse. Ma se da un lato le operazioni della Bce hanno consentito un miglioramento dei bilanci delle banche attraverso operazioni di prestito a tassi “da saldo” (con in quali gli istituti di credito hanno effettuato attività speculative sui titoli di stato), dall’altro lato ben poca liquidità è finita nel circuito produttivo e nelle casse delle imprese, sempre più soffocate dalla stretta creditizia e da un fisco insaziabile.
I governi, invece, si trovano in estrema difficoltà, costretti tra la necessità di sostenere l’economia nazionale ed il rigore imposto da Bruxelles alla finanza pubblica. E così siamo ancora in balia del “Patto stupido”, come definì l’allora Presidente della Commissione europea Romano Prodi gli accordi sul Patto di stabilità che impongono degli stringenti vincoli di bilancio ai Paesi dell’Ue. I margini di manovra dei singoli Stati dell’Unione sono ridotti al lumicino e sono in molti a cominciare a chiedere maggiore flessibilità sulle regole in cambio di riforme strutturali.
Si fa un gran parlare dell’esperienza spagnola che, attraverso uno stravolgimento e una precarizzazione delle norme sul mercato del lavoro, ha ricominciato a crescere. Ma la Spagna ha anche un tasso di disoccupazione che ha sfiorato punte del 30%. E, in più, ha un rapporto deficit/Pil del 6%. Che sia questa la via d’uscita? Ridare ai governi nazionali la possibilità, in momenti di crisi drammatica come questi, di intervenire con operazioni di finanza pubblica, riducendo il pesante carico fiscale che sta strozzando famiglie ed imprese anche a costo di sforare i parametri del “Patto stupido”? Probabilmente sì. Anche se Frau Merkel non lo vuole. Anche se la Germania ha imposto a tutta Europa un rigorismo cieco e, alla lunga, controproducente guardando agli ultimi dati sulla produzione tedesca che inizia a rallentare. Non è un caso se l’ultimo volume pubblicato da Vittorio Feltri e dal Vicedirettore del TG1, Gennaro Sangiuliano si intitola:
“Quarto Reich – come la Germania ha sottomesso l’Europa” (Mondadori, pp. 128, € 17,00), una disamina approfondita di come dai tempi dell’unificazione, Berlino si sia scrollata di dosso la sovranità limitata tacitamente in vigore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
“Amo tanto la Germania che preferisco averne due” disse François Mauriac, ben conscio dei rischi di una deriva germanocentrica per l’Europa.
E allora, forse, andrebbero seguiti altri esempi. Magari al di là dell’Oceano. Non quello degli Stati Uniti però. Ma quello dell’Argentina.
“L’Argentina – scrive in un recente report Mauro Margoni, corrispondente da Buenos Aires del think tank Il Nodo di Gordio – dopo aver rischiato il secondo default in 12 anni, continua ad essere la stessa di prima. Attenta allo sviluppo dell’economia interna e delle politiche sociali, quali ad esempio l’aumento del numero dei pensionati e delle pensioni minime o attraverso interventi atti a promuovere gli acquisti nel settore automobilistico, grazie al programma Procreauto. Il tutto, nonostante il persistere di un’opposizione priva di idee, ma volta ad intralciare l’operato del governo”.
Il vero fallimento, probabilmente, sta nel perseguire politiche ottuse imposte a tutt’Europa dalla Bundesbank. Decisioni scellerate che finiscono per affamare i popoli in nome di chissà quale totem finanziario da continuare ad adorare.
Daniele Lazzeri